È firmata da Damiano Michieletto la regia della Zauberflöte (Il flauto magico) di Mozart, che Rai Cultura trasmette in prima serata su Rai5 mercoledì 21 ottobre alle 21.15. Andato in scena nel 2015 alla Fenice di Venezia, lo spettacolo è diretto da Antonello Manacorda, e vede protagonisti Antonio Poli, Ekaterina Sadovnikova, Goran Jurić, Olga Pudova e Alex Esposito. Le scene sono firmate da Paolo Fantin, i costumi da Carla Teti, mente il light design è curato da Alessandro Carletti. Proponiamo qui la recensione di Roberto Mori
Il fascino di Die Zauberflöte (Il flauto magico) sta nell’accumulo di simboli apparentemente contraddittori e irrelati. Inutile cercarvi spiegazioni contenutistiche definitive e certezze consolanti. Il simbolo spiegato rassicura, delimita, e quindi non è più tale. Se poi si considera il salto qualitativo che intercorre tra l’ingenuità della favola di Schikaneder e la profondità delle verità alluse dalla musica di Mozart, si capisce quanto sia difficile rappresentare questo capolavoro nella sua totalità. Nell’allestimento ideato per la Fenice di Venezia nel 2015 (una coproduzione con il Maggio Musicale Fiorentino) e che sarà trasmesso su Rai5, Damiamo Michieletto utilizza pertanto una delle tante possibili chiavi di lettura, evidenziando in particolare alcuni risvolti ideologici e pedagogici legati alla collocazione storica dell’opera, nata come si sa a ridosso della presa della Bastiglia.
Per il regista veneziano Il flauto magico non è un percorso iniziatico in senso massonico, ma un viaggio verso l’autoconsapevolezza e la maturità in cui si scontrano l’educazione religiosa e quella laica, la ragione e il dogmatismo. Ad avere la meglio, naturalmente, è proprio quell’esprit laïque consacrato, in via di principio e nelle istituzioni (scuola compresa), dall’illuminismo e dalla Rivoluzione francese. Di qui l’idea di Michieletto di ambientare l’opera in una scuola, dove Sarastro veste i panni del preside saggio, che ha una visione laica della conoscenza, mentre la Regina della notte è una madre-istitutrice tanto dogmatica quanto nevrotica, attorniata da tre damigelle-suore pronte a infrangere con disinvoltura i voti di castità di fronte al bel Tamino.
In questo contesto, Papageno diventa un bidello claudicante, analfabeta ma sensibile al linguaggio della natura e degli animali, e i tre geni si trasformano in minatori con tanto di casco con la luce: spiriti guida che illuminano la strada della conoscenza nei momenti bui. Va da sé che Tamino e Pamina sono due studenti dell’istituto: nel loro percorso di formazione affronteranno insieme tutte quelle prove – le difficoltà negli studi, la ribellione, la sofferenza per il distacco dalla famiglia, i conflitti affettivi e sessuali – che sono indispensabili per approdare alla vita adulta. Tutto si svolge con inventiva e coerenza rispetto all’idea registica di fondo e alla inevitabile (per Michieletto) trasposizione cronologica: come si deduce dall’impianto scenico di Paolo Fantin e dai costumi di Carla Teti, siamo infatti in un decennio imprecisato della seconda metà del Novecento. I luoghi dell’azione sono un’aula un po’ fatiscente e l’esterno della scuola, con il boschetto che accoglie le prove iniziatiche.
Certo, l’impostazione “pedagogica” finisce per sacrificare il senso del sublime e i risvolti metafisici che pure sono presenti nell’opera. In compenso, Michieletto dà spazio adeguato al versante giocoso e fiabesco: una serie di proiezioni fantasiose e suggestive animano infatti la grande lavagna che domina l’aula e dalla quale si materializza pure il serpente che insegue Tamino all’inizio dell’opera.
Lo spettacolo è drammaturgicamente coerente e realizzato in modo ineccepibile, accurato nella recitazione e nelle controscene. L’unica riserva che mi sento di fare è di tipo concettuale: ridurre Il flauto magico al clima elementare delle tradizionali contrapposizioni tra modello confessionale e laico, tra scienza e fede, tra modernità e oscurantismo è una chiave di lettura limitativa e ormai datata. Dalla Rivoluzione francese, si sa, è nato anche il Terrore e, paradossalmente, la laicità può diventare a sua volta un dogma e farsi laicismo (per dirla con Bobbio: “una Chiesa contrapposta ad altre Chiese”). Lo stesso Sarastro ha un rigorismo morale non privo di ambiguità: è sì un saggio maestro di vita, ma ha anche tratti che rivelano la durezza del dominatore, perfino intolleranza e crudeltà. Di contro, la Regina della notte non è necessariamente un simbolo del male. Rappresenta solo un mondo sorpassato, fissato su una eroica autarchia, il principio superato della magia che crolla. Ci sono insomma molti motivi che suggerirebbero, in una lettura del Flauto magico, di non portare troppa acqua al mulino della contrapposizione fra laicità illuminista e oscurantismo religioso.
Dal podio dell’Orchestra della Fenice, Antonello Manacorda punta a un’esecuzione che si contraddistingue per la leggerezza fluida, i tempi spediti e le sonorità senz’altro asciutte, mai però aride o anemiche. Una scelta portata avanti con coerenza di condotta narrativa e ben sintonizzata con il taglio della messinscena. Vivacità e scioltezza si accompagnano a una messa a fuoco adeguata dei diversi piani narrativi e drammatici, anche se forse l’elegia e il patetismo legati al personaggio di Pamina lasciano a desiderare maggiore intensità. Il ridimensionamento dei timbri orchestrali solenni e grandiosi, invece, non mi pare intacchi il senso misterico e iniziatico che contrassegna alcuni momenti dell’opera.
In palcoscenico, il Papageno di Alex Esposito si impone per la tenuta vocale, il fraseggio vario e comunicativo, ma soprattutto per la capacità camaleontica di adattarsi, con l’abilità di un attore consumato, alle più disparate esigenze registiche. Di rilievo anche la prova di Antonio Poli, un Tamino dal timbro finalmente pieno e brunito, omogeneo nell’emissione, forse da approfondire nel fraseggio e nelle sfumature, ma capace di essere adeguatamente morbido e duttile. Meno autorevoli le altre voci maschili, tra cui il Sarastro di Goran Jurić, non sempre fermo nell’emissione, carente di rotondità cantabile e nobiltà. Come Monostatos, Marcello Nardis convince più per la caratterizzazione che per la resa vocale.
Tra le donne, risulta discreta la Pamina di Ekaterina Sadovnikova; fluida e precisa, benché poco screziata drammaticamente, Olga Pudova come Regina della notte; simpatiche le due Papagene: il soprano Caterina Di Tonno e l’attrice Daniela Foà. Bene le Tre Dame (Cristina Baggio, Rosa Bove, Silvia Regazzo). Apprezzabili anche le tre voci bianche del Münchner Knabenchor.
Photo credit: Michele Crosera