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Su Rai5, Evgenij Onegin dall’Opera di Roma con la regia di Carsen

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Registrato al Teatro dell’Opera di Roma lo scorso febbraio, prima della chiusura di tutti i teatri italiani causata dal Covid 19, l’Evgenij Onegin di Čajkovskij diretto da James Conlon e con la regia di Robert Carsen, viene proposto in prima tv mercoledì 10 giugno, alle 21.15, su Rai5 (canale 23).

Dramma intimo e struggente, l’Evgenij Onegin di Čajkovskij, romanticissimo per fonte realistico-romanzesca ma già potentemente moderno per quel suo sguardo lucido sulla coscienza che, con doloroso disincanto, brucia e rimbalza con intatta attualità dalla Russia imperiale e dei pomeščiki, i grandi proprietari terrieri, filtrando in cenere gli affetti sinceri e i sogni giovanili spezzati. E, con essi, la febbrile ricerca di una felicità impossibile fra unioni di convenienza e amicizie ferite, gelosie e sfide, mal d’être e destini probabilmente ideali, ma i cui tempi non si incontreranno mai.
È quanto ritagliato con mano chirurgicamente esatta, fra l’incipit prolettico sul solitario Onegin assorto dalla sua poltrona nell’ipotetica lettura della lettera e la vivida sospensione contemporanea entro un contenitore scenico limpido dall’inizio alla fine nel suo mero trascolorare di luci fondenti e colori per staccare, come in rilievo, figure e oggetti dalla più nobile Russia del 1820, dall’ancora bellissima produzione della Canadian Opera Company firmata nel 1997 dal regista Robert Carsen per il Metropolitan di New York, con scene e costumi preziosi di Michael Levine e le luci dalla fondamentale valenza drammaturgica dell’asso Jean Kalman, portata e applaudita per la prima volta al Teatro Costanzi di Roma dopo diciannove anni di assenza del titolo. Ossia, da quando, a cantarlo, fu la magnifica Tat’jana di Mirella Freni, artista immensa scomparsa di recente e alla quale, lodevolmente, i vertici dell’Opera hanno voluto dedicare lo spettacolo diretto, nell’occasione, dallo statunitense James Conlon.

Una dimensione registico-visiva, quella di Carsen, non solo contenitore ideale per restituire in astrazione universale i cardini di una fonte letteraria neanche troppo distante dallo stesso vissuto dell’autore Puškin (che morirà nel 1837, neanche a farlo apposta, proprio come il suo immaginario poeta Lenskij in seguito alle ferite riportate durante la sfida a duello contro il barone francese Georges d’Anthès, audace corteggiatore fra i pettegolezzi dei salotti nella Pietroburgo coeva dell’affascinante Natal’ja Gončarova, adorabile ma assai frivola moglie del celebre autore del romanzo Evgenij Onegin) quanto, in special modo, camera della psiche e memoria assai utile per osservare ruoli e relazioni attraverso lo sguardo a freddo del Narciso di stampo byroniano Onegin. E d’altra parte, al contempo, per evidenziare con maggiore chiarezza i diversi contributi messi a segno fra canto in palcoscenico e orchestra in buca.
Uno sfondo di calda luce solare, cinque tronchi sottili di betulle e un fitto tappeto di foglie d’autunno bastano quindi a incorniciare nel primo quadro il giardino della tenuta dei Larin dove, su un tavolo di campagna, la signora Larina, madre di Ol’ga e Tat’jana, cuoce marmellate in una pentola di rame accanto alla fida balia Filipp’evna. È il luogo per un duetto d’apertura efficace poi raddoppiato in quartetto parzialmente sbilanciato per le voci poco udibili delle figlie fuori campo. Ed è anche il luogo dove avverrà l’incontro fra le due coppie nonché un quartetto di mozartiana perfezione, quindi l’improvviso innamoramento della sognatrice Tat’jana, ritratta a meraviglia nella sua camera da letto fra i minimi arredi e l’immenso blu luminoso che fa da sfondo al secondo quadro e alla grande scena della lettera. Il ritorno al giardino dei Larin si tinge poi significativamente di un grigio color del piombo al quadro terzo, contrassegnando cromaticamente il rifiuto da parte dell’impunito Onegin alias don Giovanni dell’est dinanzi all’amore per lui troppo puro e candidamente confessato, pur tra mille reticenze, nella missiva a firma di Tat’jana. E così, a seguire, nuova luce d’oro – s’immagina falso – per la festa da ballo con valzer e canzone del cantore in parodia francese Triquet più mazurka, sfondo nero al lancio della sfida fra i due amici causata dalle fatue attenzioni di Onegin per la più allegra Ol’ga promessa sposa del romantico Lenskij mentre ancora un blu, stavolta gelido e brumoso, stringe le sagome in penombra dei due giovani a duello, sul lento sorgere del sole all’orizzonte che decreta la morte del più onesto fra i due.
E solo tinte fredde torneranno nell’atto finale, quando nel ricco palazzo del principe Gremin in città, a Pietroburgo, ritroviamo tre anni più tardi Onegin, ospite ramingo sempre più annoiato e stavolta sedotto da una non più semplice ma altera Tat’jana, ormai moglie fedele e donna d’alto rango, senz’altro infelice ma forte abbastanza per disdegnare per sempre l’egoistica passione del contraddittorio, per quanto da lei ancora amatissimo, Evgenij Onegin.
In un tale contesto d’immagini e gesti studiati ad arte i ritratti canori non potevano che risultare singolarmente assai chiari per quanto vincenti in soluzione difforme.

Protagonista assoluta della rilettura romana, al di là del chiaro peso a lei assegnato nel capolavoro in versi di Puškin e nelle scene liriche in tre atti e sette quadri composte da Čajkovskij su libretto proprio e di Konstantin Šilovskij, è la Tat’jana del soprano Maria Bayanchina, pupilla del Marinskij e interprete di riferimento per il repertorio russo vantando, oltre a una naturale qualità di dizione, grande sicurezza di proiezione, un’ideale densità di pasta lirica e timbrica e una notevolissima carica dinamico-espressiva già ad esempio rilevata ascoltandone tre anni fa al Teatro San Carlo Napoli il ruolo eponimo nella Charodeyka di pari autore. Credibile nel restituire sia sul fronte scenico che vocale la nascita del suo incontenibile amore, passando dall’iniziale timidezza giocata a contrasto con l’estroversa sorella Ol’ga, dunque dalle riserve o timori ai vivi e sinceri slanci, mette a segno una palpitante scena della lettera, giustamente premiata da calorosi applausi. E così dal doloroso contegno in lei, delicata creatura, avvertibile dopo il rifiuto di Onegin, alla grande tempra sfoderata unitamente al conflitto e alla decisione finale.
Bello e impossibile, secondo la regola scenica a lui spettante, si rivela d’altra parte l’Evgenij del baritono austriaco Markus Werba, anch’egli dall’emissione ben salda quanto a intonazione e definizione ma, soprattutto per tale repertorio, piuttosto a corto di sostanza ed armonici. Viceversa tenero amante è il Lenskij del tenore di origine albanese Saimir Pirgu, apprezzato da sempre per la nobiltà del suo fraseggiare e la lucentezza dei colori. Ed è così che, pur non del tutto congeniale al repertorio russo, in quel suo dolente quanto toccante addio alla giovinezza e alla vita sciolto a un passo dal duello incanta tutti per la bellezza di accenti e la morbidezza del suo canto. Particolarmente apprezzabile per l’ampia estensione e il dominio tecnico-espressivo è anche l’Ol’ga del mezzosoprano russo Yulia Matochkina. Brave inoltre Anna Viktorova per l’anziana njanja Filipp’evna e Irina Dragoti, diplomatasi alla “Fabbrica” Young Artist Program dell’Opera di Roma, per la signora Larina, bene lo Zareckij di Andrii Ganchuk uscito dal medesimo cantiere d’arte, efficace la chiave ironica e leggera del Triquet di Andrea Giovannini così molto applaudito è stato l’inno all’amor coniugale cantato con ampia e duttile generosità dal Gremin del basso John Relyea.

Seppure a segno per tinte e impatto, metricamente meno preciso del solito è stato il Coro dell’Opera di Roma preparato da Roberto Gabbiani mentre puliti e ben plastici si sono confermati i movimenti coreografici affidati al Corpo di Ballo della Fondazione su disegno di Serge Bennathan. In linea con la visione più asciutta e moderna impressa dalla mano registica di Carsen, infine, è apparsa la peculiare direzione di James Conlon propenso, più che a scavare fra le pieghe di melodie e dramma, a valorizzare con respiro sinfonico rubati, rilievi ritmici e accelerazioni metriche, giri di valzer, altre danze e fanfare. Dell’Orchestra dell’Opera di Roma si premiano, in particolare, archi, legni e primo corno.

Photo credit: Yasuko Kageyama

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