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Roma, Teatro dell’Opera – I Capuleti e i Montecchi

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Pura e perfetta nel suo perlaceo candore di tinte quanto nella raffinata, intensa elegia dell’autentico belcanto che nel primo Romanticismo, in via nuova e paradigmatica, saldamente raccoglie e detta in avanti regole e sentire dell’opera di Scuola napoletana, facendo leva sulla storia di amore e morte più celebre che c’è. È quanto il ventottenne Vincenzo Bellini mette a segno in poco più di un mese agli inizi del 1830 per la Fenice di Venezia, su commissione nata per caso e dunque in tempi assai brevi (da “strozzamento” dirà lui, in una lettera del 20 gennaio all’amico Florimo), con la tragedia lirica in due atti I Capuleti e i Montecchi utilizzando un libretto che Felice Romani a sua volta aveva rimaneggiato da un proprio testo scritto cinque anni prima per Nicola Vaccaj. Così come, in diversi luoghi, il musicista catanese di formazione partenopea avrebbe attinto non poche note da alcune sue partiture precedenti (Adelson e Salvini, Zaira) per consegnare alla storia un piccolo, per noi prezioso capolavoro. Meno in luce rispetto alla Sonnambula e alla Norma di lì a breve a venire (1831) ma, si direbbe, quasi un sapiente manuale che testa i diversi registri e le combinazioni intervallari, riflette sulle condotte armoniche, su cesellature melodiche dalla fluidità e lunghezza di memoria schubertiana. Ed è mirabile come in tale ottica il titolo sia tornato dopo sedici anni di assenza al Teatro dell’Opera di Roma registrando stavolta, dopo la non proprio felice rappresentazione diretta da Santi, un pieno, meritato successo per la nuova produzione andata esattamente a centrare e a restituire con efficacia di stile e linguaggio il delicato taglio sperimentale sul duplice piano musicale e scenico-gestuale grazie, rispettivamente, all’ispiratissima direzione di Daniele Gatti sul podio dell’Orchestra e del Coro maschile della Fondazione (ottimamente preparato da Roberto Gabbiani) e di Denis Krief unica firma per regia, scene, costumi e luci: appunto esaltandone la natura pura e perfetta di una perla.

Il contenitore scenico ideato da Krief è, a tal fine, assai semplice, interamente giocato fra materiali lignei e tinte neutre utili ad attraversare il tempo (fra i rimandi, senz’altro, anche le assi del Globe Theatre sebbene, alle spalle dell’opera, non ci sia in realtà Shakespeare quanto, piuttosto, l’antica novella di Matteo Bandello e altri racconti italiani analoghi) ma, soprattutto, ideali a lasciare strategicamente in primo piano la bellezza assoluta del canto. Unica la struttura in palcoscenico, probabilmente in abete o in rovere, con quinte laterali ad ampi archi e pavimento inclinato riproponendo il più celebre luogo metafisico ritratto nel primo Novecento da Giorgio De Chirico. Quindi, sul fondo, un lungo tubo di filo spinato a segnare dal solo punto che vediamo, quello dei Capuleti, il conflitto duecentesco tra le fazioni dei guelfi e ghibellini, per odio cieco non dissimile da quello che dilania intere famiglie fra gli odierni clan. Bastano una grata in legno calata a mo’ di siparietto e due altri pannelli sul fondo per cambiare spazio e scena. Dalla galleria del Palazzo di Capellio, padre di Giulietta, si entra così nell’ampia stanza della fanciulla solo aggiungendo, agli archi, delle tende bianche e leggere, di massima suggestione per come sono mosse dal vento – in luogo del balcone, assente sia qui che nella fonte librettistica – e, al centro, un manichino con l’abito da sposa che la giovane innamorata di Romeo dovrà invece indossare per il suo forzato matrimonio con Tebaldo. Bastano poi pochi tavoli apparecchiati per creare la conviviale atmosfera di festa per le nozze, interrotta dall’arrivo dell’amato e dei Montecchi, la già vista grata al proscenio qui per il duello mentre un ulteriore pannello sul fondo, a grande e sottile croce forata, filtra con bell’effetto la luce nella penombra del cupo ambiente sepolcrale dei Capuleti, lì dove riposa Giulietta nella sua morte apparente e dove i due giovani amanti moriranno nel tragico epilogo equivocando filtro e veleno, hypnos e thanatos, nella scena e grand’aria delle tombe. Il resto lo completa una gestualità ben viva e calibrata con pertinenza in ogni dettaglio, imperiosa nel caso di Capellio, scolpita in pose plastiche per Tebaldo, di eroico slancio per Romeo e di ingenua freschezza, ma anche via via decisa nel carattere, per Giulietta. Meno convincente, invece, l’idea di presentare tutti in abiti novecenteschi e di non differenziare le fazioni, presentando inoltre i coristi in foggia da Cavalleria rusticana, con fucili in spalla e pistole puntate più che con lance in pugno, mentre il medico Lorenzo accoglie la lezione shakespeariana vestendo l’abito talare.

A garantire il giusto nerbo dinamico-ritmico, l’intera gamma di colori e in special modo l’esatto appiombo stilistico nelle sezioni statiche quanto nei non facili raccordi cinetici, il notevolissimo lavoro condiviso fra il direttore musicale Daniele Gatti e la “sua” Orchestra della Fondazione capitolina, a maggior ragione apprezzabile se si pensa anche al confronto di quanto portato lontano dalla rilettura in chiave verdiana operata all’epoca da Nello Santi nello spettacolo con targa catanese e la Giulietta della figlia Adriana Marfisi accanto al Romeo di Sonia Ganassi.
In effetti già la scattante ma rotonda e genuina baldanza della Sinfonia d’apertura, al pari della successiva Introduzione con Coro, segna bene distacco e distanze dal diverso peso drammatico proprio dei melodrammi del Romanticismo maturo, ricercando qui invece con rara precisione il colore sonoro specifico e i migliori moduli espressivi appartenenti a quei primi decenni ottocenteschi del belcanto partenopeo. Ossia, allo stesso mondo musicale napoletano di Mercadante e Manfroce, appunto di Bellini e del primo Donizetti, oltre al caso peculiare e a sostegno del significativo rapporto fra le voci in campo, per retaggio di ruolo e soggetto vincolate al Settecento – l’amoroso en travesti assegnato a un mezzosoprano accanto alla prima donna soprano per riprodurre timbricamente un candido amore adolescenziale unito non solo per terze ma per la prima volta all’unisono, l’antagonista tenore a pasta scura e le altre voci di basso – per quanto dall’emotività già spiccatamente romantica.
Inoltre, sempre riguardo alle scelte sulla partitura, le compatte velocità e le rarefazioni richieste agli archi, la duttile lucentezza degli strumentini e il sempre plastico accompagnamento a cantabili e cabalette in un unico arco di tensione e respiri, con sapienza tarati su azione, accenti e personaggio entro la scena e in coerenza con l’architettura complessiva, hanno assicurato al Bellini di Gatti il valore d’innegabile, pregiato modello di riferimento. Intenzioni dunque più che felici che, dal podio, l’Orchestra dell’Opera di Roma ha con sollecitudine eseguito al meglio, confezionando rilievi “a solo” degni di gran lode (pensiamo al primo corno e all’arpa rispettivamente nella scena e cavatina di Giulietta) e impeccabili intese nell’insieme.

Per quanto affetta da un’improvvisa indisposizione, così come si è appreso dalla voce fuori campo che ha ringraziato a nome della Fondazione l’interprete decisa a sostenere comunque la scena, il soprano lirico di coloratura Mariangela Sicilia ha dato forma e voce con alta tecnica e texture di seta a una Giulietta di deliziosa sensibilità espressiva, tanto intensa nei centri quanto cristallina all’acuto, assecondando nelle linee sinuose del suo canto le emozioni molteplici di figlia amorevole, donna coraggiosa o di felice e disperata amante. Splendida nell’intonare con accenti trasparenti dinanzi alla finestra “Un refrigerio ai venti”, come attraversata a braccia aperte dall’aure leggere filtrate dalle tende, dolcissima nella sua cavatina d’esordio “Oh! quante volte, oh! Quante” e non meno sublime nel saldare i suoi sentimenti all’unisono, nel celebre Finale primo (“Se ogni speme è a noi rapita”) con il Romeo del mezzosoprano classe 1993 Vasilisa Berzhanskaya, a sua volta più che credibile, in pantaloni scuri e stretti, ampia camicia bianca e giubbotto di pelle nera, nel suo ruolo en travesti. Soprattutto, vocalmente, giovane talento fenomenale nel correre flessuosa e con pari destrezza – anche se con un vibrato magari da stringere per renderlo più vibrante – in ogni zona della sua estensione in pentagramma, scavando fra le note gravi da contralto, poggiando gli slanci di forza nei centri del mezzosoprano, volando verso vette sopranili fino a toccare il si naturale acuto.
Non meno interessante il parimenti ventiseienne tenore peruviano Iván Ayón Rivas, impegnato nella parte di Tebaldo: è il primo tra i protagonisti a entrare in scena, sfoderando un’emissione ferrea come il suo “acciaro” di sortita (in scena, a dispetto del libretto, una pistola) e, in particolare, catturando l’attenzione per quella sua tinta compatta e perfetta per il ruolo dell’antagonista secondo i canoni di quella stessa tradizione che assegnava alla voce angelicata dei castrati il personaggio dell’eroe. E ancora, a completare il ventaglio dei registri, la vocalità cavernosa del sempre apprezzato basso Nicola Ulivieri, medico e familiare dei Capuleti cui si deve la bella idea del filtro, e la più dura sonorità di Capellio, sempre voce di basso, ben messa a fuoco da Alessio Cacciamani.
Al margine, fra i rumori molesti e le intemperanze sempre meno tollerabili del pubblico, si segnala un diverbio a voce tale, da un palco prossimo alla scena, da aver addirittura provocato la sospensione per qualche istante del delicatissimo confronto fra Giulietta e Lorenzo, nel pieno del vocalizzo all’acuto dell’ultima celebre aria del soprano “Morte non temo”, alla seconda scena dell’atto secondo. Risultato: cantanti e direttore attoniti più scuse pubbliche, parimenti a gran volume, del signore sopracitato indirizzate al soprano Mariangela Sicilia che da parte sua, abilissima nel non perdere il filo della concentrazione, ha ripreso nell’esatto punto e con pari tensione interpretativa dando un’ulteriore, altissima lezione di professionalità, per arte e pazienza.

Teatro dell’Opera – Stagione 2019/20
I CAPULETI E I MONTECCHI
Tragedia lirica in due atti
Libretto di Felice Romani
Musica di Vincenzo Bellini

Romeo Vasilisa Berzhanskaya
Giulietta Mariangela Sicilia
Tebaldo Iván Ayón Rivas
Lorenzo Nicola Ulivieri
Capellio Alessio Cacciamani

Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera di Roma
Direttore Daniele Gatti
Maestro del coro Roberto Gabbiani
Regia, scene, costumi e luci Denis Krief
Nuovo allestimento
Roma, 26 gennaio 2020

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