Lunedì 19 ottobre, alle ore 10, Rai5 trasmette Alceste, tragedia lirica di Gluck, nell’allestimento realizzato da Pier Luigi Pizzi nel 2015 per il Teatro La Fenice di Venezia. Sul podio, Guillaume Tourniaire. Nel cast, Carmela Remigio, Marlin Miller, Zuzana Marková, Giorgio Misseri, Ludovico Furlani, Anita Teodoro Armando Gabba e Vincenzo Nizzardo. Regia televisiva a cura di Stéphane Vérité.
A Vienna, tra il 1762 e il 1767, Christoph Willibald Gluck mette in atto una rivoluzione artistica. Prima con Orfeo ed Euridice, poi con Alceste: opere “riformate” in cui la musica si lega alla poesia nell’esaltare l’espressione drammatica, eliminando il divario tra aria e recitativo e spogliando il canto da “inutili ornamenti”. La riforma di Gluck e del suo librettista Calzabigi, per la verità, non entusiasmerà molto i viennesi. E nemmeno altre platee d’Europa.
Si tratta di un’operazione “in vitro” tutt’altro che facile. Un processo intellettuale destinato a piacere ai letterati dell’epoca dei lumi che vogliono il trionfo della ragione (cioè della verità drammatica) anche nell’arte, ma a scontentare i melomani che considerano tutt’altro che “irragionevoli” arie e virtuosismi. Solo a un tedesco caparbio e puntiglioso, del resto, poteva venire in mente di condurre in porto una riforma contro i gusti di gran parte degli spettatori, che finiranno spesso per trovare la sua musica “ora romorosa ora piatta, sempre noiosa”. Certo il merito storico del compositore, che esalta il dramma sgomberando il cammino ai successori, è fuori discussione. Ma è altrettanto vero che la riforma gluckiana influenzerà solo incidentalmente gli altri operisti e che il teatro musicale prenderà vie diverse: quelle di Mozart, di Rossini e poi di Verdi e di Wagner che, dichiarandosi seguace di Gluck, lo adatterà liberamente ai propri fini.
In Alceste, l’antidoto alle stravaganze operistiche della prima metà del Settecento si identifica con il ritorno alla tragedia greca. In questo senso, l’opera è una continuazione dell’Orfeo pur con una situazione capovolta. Se in Orfeo è il mitico cantore a scendere negli inferi per ritrovare la consorte, in Alceste è invece la sposa che si sacrifica per salvare la vita dell’amato, il quale tuttavia rigetta il sacrificio inutile perché non potrebbe continuare a vivere senza di lei. Un dissidio straziante capace di commuovere Apollo, che alla fine riunisce gli sposi. Gluck e Calzabigi procedono rigorosamente sulla strada del rinnovamento tragico, secondo la visione di un’epoca che, alla vigilia del terremoto rivoluzionario, esalta la ragione, l’armonia, il sereno equilibrio dei sentimenti coniugali. Un fine edificante al quale non si addicono virtuosismi e ariette melodiche, ma sublimi recitativi e ampi ariosi dove la musica esalta la forza oratoria delle parole.
Nell’edizione ripresa da Rai5 alla Fenice di Venezia nel 2015, dove Alceste – strano a dirsi – non era mai stata rappresentata, la grecità melodrammatica di Gluck viene proposta scenicamente in una veste severamente neoclassica. Lo spettacolo di Pier Luigi Pizzi, già artefice di tre allestimenti di questa “tragedia per musica”, si impone infatti per la cifra monumentale elegante e algida. Anche qui, come in tante altre produzioni di Pizzi, scene e costumi sono giocati sulla bicromia bianco-nero, spezzata solo da un drappo giallo che arreda la camera regale. Sullo sfondo una struttura richiama schematicamente la scena di un teatro greco, integrata da pochi altri elementi: un albero carico di teschi, che allude al sacro bosco degli dei infernali, una statua di Apollo, un talamo nuziale. Le suggestioni canoviane si mescolano a una diffusa (forse eccessiva) atmosfera funerea. Più che in altre occasioni, Pizzi lavora per sottrazione, non solo nella scena scarnificata ma anche nella regia, dove l’immobilismo predomina sia nella gestione del coro che nella recitazione dei singoli protagonisti.
L’esecuzione non risulta sintonizzata con il nitore marmoreo e la fredda pulizia della parte visiva. La direzione di Guillaume Tourniaire sembra in qualche modo ricordarci che la monumentalità di Gluck è fatta anche di nervi, muscoli e sangue. Di qui una lettura che imprime un movimento drammatico a tutta l’opera (eseguita nella prima versione, in italiano, del 1767), forse un po’ troppo impetuosa e spinta a ridosso del romanticismo. Un ventaglio più ampio di sfumature espressive e una maggiore ricchezza di piani dinamici non guasterebbero.
Nei panni della protagonista, sulle cui spalle grava oltre la metà dell’opera, Carmela Remigio attinge a tutte le sue risorse di fraseggiatrice accorta, capace di un canto vario ed espressivo. Le difficoltà della parte, tuttavia, sono quelle che sono e la voce non sempre risulta a fuoco nelle parti più basse della tessitura. L’interprete si dimostra inoltre più a suo agio nei momenti patetici che in quelli imperiosi e drammatici, dove si desidererebbero maggiore ampiezza e solennità nel fraseggio. Marlin Miller affronta la parte di Admeto con stile appropriato, dizione efficace, ma nel sostenere le sue due arie di disperazione evidenzia un certo affaticamento nelle emissioni in zona acuta. Ineccepibili sia dal punto vocale che stilistico le prove di Zuzana Marková, Ismene, e Giorgio Misseri, Evandro. Funzionali le parti di fianco: Ludovico Furlani, Eumelo, Anita Teodoro, Aspasia, Armando Gabba, Un banditore / Oracolo, e Vincenzo Nizzardo, Gran Sacerdote di Apollo / Apollo.
Photo credit: Michele Crosera