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Quando Rossini fa rima con Fellini: il “Turco” bolognese di Livermore su YouTube

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Composto da Rossini nel 1814, Il turco in Italia è una sorta di Italiana in Algeri a rovescio. Capovolta la visita: è un turco, in questo caso, ad approdare nel golfo di Napoli. Ma rovesciata anche la prospettiva. Il libretto di Romani presenta un personaggio quasi pirandelliano, il poeta Prosdocimo, che segue gli sviluppi della vicenda per poi trasferirli in un dramma: se ne sta in scena, annota, commenta. Solo che la storia comica di Selim, il principe conteso fra due donne, gli sfugge tra le mani. La stessa musica di Rossini ricorda quella dell’Italiana nel gusto delle turcherie, ma se ne distacca nella sostanza. Ai colori sgargianti oppone un andamento da commedia musicale borghese, condotta con sottile svolgimento psicologico.

Nell’allestimento concepito nel 2017 per il Rossini Opera Festival e poi ripreso con successo dal Teatro Comunale di Bologna, che ora lo trasmette in streaming su YouTube a partire dalle ore 21 di sabato 30 maggio, più che a Pirandello Davide Livermore guarda a Federico Fellini. Nella sua ottica, la vicenda del Turco è infatti perfettamente assimilabile a quella di 8 ½. Come Guido Anselmi, il regista interpretato da Marcello Mastroianni nel capolavoro felliniano, anche il poeta Prosdocimo è un autore in crisi di ispirazione e alla ricerca di un soggetto drammatico. Stimolati da incontri “reali”, entrambi trasformano la vita in una storia da raccontare e assistono al dipanarsi degli eventi, prevedendone talvolta gli sviluppi potenziali. Rossini sarebbe così un precursore non solo di tecniche metateatrali (le corrispondenze con i Sei personaggi in cerca d’autore di Pirandello sono state spesso evidenziate), ma anche di procedimenti cinematografici tipici del Novecento.

Preceduto da un breve dialogo di Ennio Flaiano, dove i cantanti introducono il gioco del teatro nel teatro, lo spettacolo è in pratica una riproposta delle scene più famose del film: a partire dalla celebre sequenza dell’harem fino alla passerella di chiusura, simbolo dell’intera produzione felliniana. Prosdocimo assume le sembianze di Mastroianni, Fiorilla quelle di Claudia Cardinale, gli zingari si trasformano in una troupe circense, e così via. Tutti i protagonisti dell’opera sono quindi una proiezione della fantasia del poeta/regista, ma a un certo punto – come accade in 8 ½ – si ribellano pretendendo di avere una vita propria. Non si tratta pertanto di una attualizzazione, ma di una autentica sovrapposizione tra opera e cinema. Sviluppata in un asettico set in bianco e nero realizzato dallo stesso Livermore, con cui contrastano i costumi ora sgargianti ora raffinati di Gianluca Falaschi, inizialmente l’idea funziona e diverte, grazie anche a una serie gag senza dubbio azzeccate. Alla lunga, tuttavia, l’impostazione stanca. Livermore non si accontenta di 8 ½ (tra le comparse figura con un certa invadenza la prostituta Saraghina, oltre ai personaggi di Sandra Milo e Anouk Aimée), ma cita numerose altre pellicole felliniane: Selim veste per esempio i panni di Alberto Sordi nello Sceicco bianco, Zaida quelli della donna barbuta, ma ci sono anche le soubrette de La città delle donne e altri personaggi tratti da La dolce vita e Amarcord. Il palcoscenico è spesso troppo affollato e il moltiplicarsi delle situazioni crea un effetto un po’ confusionario. Oltretutto, il linguaggio dell’opera rossiniana non è assimilabile a quello del film. Fellini ci pone di fronte a una narrazione che, con i suoi salti continui tra realtà e sogno, incubi e fantasie a occhi aperti, ricorda il flusso di coscienza e come tale esprime in forma non mediata la prospettiva del protagonista-regista. Per quanto affinità e punti di contatto siano innegabili, Rossini utilizza un linguaggio diverso, la sua metateatralità si basa su una drammaturgia più essenziale, rispetto alla quale l’ipertrofia delle immagini e l’affollamento scenico concepiti da Livermore finiscono per risultare prevaricanti.

Sul podio troviamo Christopher Franklin. Una conduzione, la sua, che non si può dire spicchi per fantasia, anche se non manca una certa verve e i tempi, quando necessario, sono spediti. Si ha più che altro la sensazione di una lettura in bianco e nero, che sacrifica certi scatti esilaranti e bizzarri, e privilegia i timbri neutri e un po’ freddi, finendo per sbilanciare quell’insieme di metafisico e strampalato che è lo spirito più autentico del Rossini comico. È vero che il Turco rappresenta qualcosa di diverso dalla precedente Italiana: il tono è meno effervescente e “meccanico”, l’estro melodico più sobrio e calibrato, ma i decorsi musicali sono più complessi e alle sonorità brillanti e ricche di colori non è comunque il caso di rinunciare.

In palcoscenico, si impone Nicola Alaimo. Il suo Don Geronio, oltre che per la bella timbratura e l’emissione omogenea in tutti i registri, si fa apprezzare per l’accento quanto mai articolato, per la varietà delle inflessioni e delle sfumature espressive. Fraseggia con vivacità ed esuberanza, ma senza sbracature, ed è inoltre a suo perfetto agio nei sillabati veloci. Se aggiungiamo la bravura scenica, è evidente che siamo di fronte a un personaggio a tutto tondo. Anche il Prosdocimo di Alfonso Antoniozzi è notevole per l’acutezza del fraseggio e la capacità di mutare continuamente accento ed espressione. Nelle note più alte si nota un certo disagio, ma essendo il ruolo impostato per lo più sui recitativi, i limiti vocali passano per una volta in secondo piano e Antoniozzi si fa valere per la maestria del grande caratterista. L’altra voce grave è quella di Simone Alberghini, che è un cantante valido e un serio professionista, ma la cui vocalità – a parte il timbro un po’ irruvidito – mi sembra non sia in grado di affrontare agevolmente le difficoltà di un ruolo da buffo “nobile” rossiniano come quello di Selim. La vocalizzazione è a tratti approssimativa e il fraseggio, nonostante la buone intenzioni, poco aristocratico.
Hasmik Torosyan si muove nel ruolo di Fiorilla con una voce chiara, povera di colori, sostenuta da una discreta eleganza stilistica e da un fraseggio non molto approfondito che la portano ad esprimere una civetteria e una grazia piuttosto generiche. Si difende nelle agilità, scenicamente è credibile, ma il personaggio risulta nel complesso poco sfaccettato e incisivo. Maxim Mironov sostiene il ruolo di Don Narciso con volume limitato, timbro chiaro, emissione tendenzialmente sbiancata negli acuti, compensando questi limiti vocali con la musicalità e l’appropriato senso stilistico.
Aya Wakizono è una Zaida abbastanza timbrata al centro e in alto ma poco consistente nelle note basse, mentre Alessandro Luciano si distingue per la simpatica caratterizzazione di Albazar. Bene il coro diretto da Andrea Faidutti.

Photo credit: Rocco Casaluci

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