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Piacenza, Teatro Municipale – L’opera minima

Si sa, l’opera è morta, forsanche sepolta. Per questo, con l’understatement che gli è proprio, Joe Schittino – forte di una formazione d’eccellenza con Giovanni Ferrauto, Ivan Fedele e Azio Corghi, ma ormai voce di spicco della contemporaneità italiana in ambito internazionale – riparte da L’opera minima, ultimo titolo di un catalogo assai variegato che, tra opere liriche, cantate e musiche di scena, da almeno un ventennio dà prova di spiccata predilezione per la dimensione composita del teatro musicale. L’occasione, preziosa come poche altre, nasce da un’idea del librettista, Claudio Santarelli, e dall’iniziativa del Teatro Municipale di Piacenza, dove l’opera è andata in scena con vivo successo in prima mondiale, ente che ha commissionato la partitura per ricordare il primo centenario della morte di Luigi Illica occorso nel 2019, insieme con La bohème inaugurale.

L’operazione si rivela di pregio, perché coniuga la celebrazione del genius loci con la musica contemporanea, e questa affida a un agguerrito manipolo di giovani interpreti, cresciuti in quell’autentico vivaio della formazione lirica che è divenuto il Municipale di Piacenza. Impegnati in una quarantina di ruoli figurano infatti tredici, giovanissimi interpreti (Renata Campanella, Federica Sardella, Eunbyul Cho, Eri Arai, Veronica Granatiero, Cinzia Chiarini, Jihye Kim, Mae Hayashi, Paola Lo Curto, Alessandro Fantoni, Rino Matafù, Lorenzo Sivelli, Juliusz Loranz), pronti a muovere i primi passi sul palcoscenico lirico e che qui, coralmente, danno prova di una sicurezza, di una scioltezza e di un impegno encomiabili. Perfettamente si sono calati, peraltro, nel più ampio contesto di una scrittura che non prevede ruoli protagonistici, ma una miriade di fugaci apparizioni, di cammei che devono catturare lo spettatore nell’arco di pochi istanti, nella felice amalgama di vocalità omogenee, compatte, smaglianti. L’arduo compito di guidare la felice impresa è spettato alla solerte, vigile bacchetta di Giovanni Di Stefano, impegnato a capo dell’Orchestra Giovanile della Via Emilia, costituita nel 2018, che mette insieme le eccellenze dei Conservatori di Parma e di Piacenza e degli Istituti musicali di Modena e di Reggio Emilia in un’attività formativa di alto profilo. Si aggiunga che – lungi da inutili fasti, forse non percorribili in questa sede – si è optato per una versione concertante, supportata da una mise en espace su fondali scenici di Guido Morelli, contestualmente esposti nella suggestiva cornice della Biblioteca Passerini-Landi. L’operazione funziona, perché vengono proiettati oli su tela che opportunamente evitano ogni connotazione descrittiva, a favore di una pittura dal carattere ampio e meditativo, squarci di paesaggi dalla materia densa e condensata in cui si predilige il tema del bosco, luogo dell’erranza e della memoria: viatico figurativo per una drammaturgia di calcolato spessore, ma al tempo stesso capace di suscitare immediata adesione da parte dello spettatore.

Autentico specialista della produzione del drammaturgo di Castell’Arquato, con encomiabile acribia di ricercatore Claudio Saltarelli ha infatti deciso di ispirarsi – «parzialmente» e «liberamente», recita il sottotitolo – a un’opera narrativa giovanile di Illica, Farfalle, effetti di luce, pubblicata per i tipi di Mondini a Milano nel 1881. Si tratta di una breve antologia di testi in prosa – cui avrebbe dovuto far seguito una raccolta di poesie, Rondinelle e civette, annunciata ma mai pubblicata – che con grande sensibilità associa l’intimismo di atmosfere pascoliane a un approccio estetico naturalista, in cui l’autore scruta il vero e ne dipinge i tratti, trascorrendo da una rêverie all’altra, attratto dalla fantasmagoria del quotidiano. I cammei sembrano quasi una prefigurazione di quello spirito entomologico, ormai quasi scientifico («ogni farfalla | da uno spillo è trafitta | ed in tavola infitta!»), che ritornerà nel nuovo secolo con Madama Butterfly, e che qui si sofferma sul destino di altrettante farfalle, poste sotto i riflettori («effetti di luce», per l’appunto) per un breve arco temporale. Sulla scorta delle Sette canzoni di Gian Francesco Malipiero, il librettista ha dunque immaginato dieci «miniature melodrammatiche», sapide nugæ ora di folgorante brevità, ora di più articolata campitura, specchio di un mondo, la società italiana di fine secolo, osservato con bonaria, sorridente complicità: è quasi una ronda di sapore schnitzleriano, secondo un gusto della sintesi che fa pensare a innovativi, stimolanti corti di teatro musicale. A cinque episodi, ricavati dai racconti di Illica, ne sono stati aggiunti altrettanti, di nuova creazione, oltre a un proemio, due intermezzi e un epilogo, che innervano la drammaturgia dell’opera: in un meccanismo ‘aperto’, componibile, che consente agli interpreti di selezionare l’ordine dei quadri, e che in questa occasione ha reso possibile l’esecuzione di una versione ridotta a soli cinque numeri, oltre a quelli fissi, per un totale di nove. A incorniciare l’azione un prologo ‘in cielo’, nella tradizione barocca, con le nove muse desiderose di nuove «incantagioni», pronte a «impollinare d’arte» un mondo nuovo, in cui scoprire il fascino della «magia: nuova vita, incanto, maestria».

L’invenzione di Joe Schittino scaturisce da una fervida conoscenza della storia dell’opera, se non della storia della musica tout court: che celebra l’arte del pastiche, il gusto della citazione, fin quasi la voluttà del riferimento còlto; ma che poi imbocca una strada originalissima e personale, fatta di una padronanza esemplare dell’orchestrazione, della raffinata fusione con la parola scenica, che si schiude in tutta la sua fragranza emozionale. Non stupisce, allora, se le prime battute hanno il sapore di un dichiarato omaggio al settecentismo di Richard Strauss, strizzano l’occhio alle irrefrenabili ninfe di Ariadne auf Naxos come al canto di conversazione di Capriccio, specchio di un melodramma che riflette su se stesso, su ciò che è stato, su ciò che potrebbe, vorrebbe ancora essere. Si trascorre, così, dal piccante valzerino di Erato allo svettante dispiego di mezzi di Melpomene, quando – appunto straussianamente – invoca un’ironica «Metamorfosi!»; fino al delizioso coro a nove voci, «Siam dolci, siam belle, siam caste pulzelle», che si scioglie in purissimo zucchero melodico, Delikatesse di conio čajkovskijano. E il gioco s’infittisce nel prosieguo delle scene: dal requiem per le salsiccette in un Mattutino con tanto di Veni, Sancte Spiritus a far da sfondo al dialogo tra sordi tra un novello fra’ Melitone, interessato alla questua, e un vecchio sordo in cerca di miracoli; o ancora la miniatura che vede protagonista Il taccagno e lo spazzacamino, in cui la pregevolissima scrittura destinata a un pasticcere narciso accomuna la raffinatezza fin de siècle dell’autore dello Schiaccianoci al neoclassico nitore di Stravinskij.
Il tema dello specchio garbatamente ritorna con Le civettuole veneziane e la russa, in cui il cicaleccio di alcune beghine, in dialetto veneto, fa da sfondo al singolare incontro tra un fotografo, che carpisce le immagini dei clienti, e una giovane fanciulla russa, che si lascia ritrarre con una farfalla tra i capelli: minuscolo idillio che si stempera in armonie della sera dipinte con una tavolozza debussista, fino al fascino di una mélodie (che cultura, questo fotografo!), «Les hirondelles nous chantent», che coglie l’attimo fuggente. Folgorante, il primo intermezzo notturno, I lampionai, mette in scena passanti e venditori in una notte deserta: l’uso del vernacolo piacentino, utilizzato da venditori e passanti, riprende una tradizione che parte dalla tradizione tardo-rinascimentale dei Cries of London di Orlando Gibbons – filtrata attraverso l’ipnotica riscrittura di Luciano Berio – per approdare ai Cries de Paris del primo Novecento di Charpentier.

Regna un’atmosfera livida nella prima miniatura della seconda parte, Amore di sorella, in cui a far da protagonista è la diafana figura di Elisa, quasi uno studio preparatorio della fragile Mimì, che assiste all’appassionata scena d’amore tra la sorella Maddalena e l’innamorato Augusto: a loro donerà una conchiglia, «ricordo d’una marea» e di un passato di felicità. Era d’autunno, il successivo intermezzo, è affidato al calore e al colore di una fisarmonica, che per tutto il Novecento è stato strumento della nostalgia e del rimpianto: di un passato che fugge ma che a Schittino non sfugge, con un velo di malinconia ma al tempo stesso con caloroso slancio verso il futuro. Ninna nanna dei gufi suggella il percorso: con una filastrocca mahleriana a far da cornice alla torbida passione del giovane Emilio per la madre, in un’antologia sulle mille sfumature dell’amore che si apre verso suggestioni inedite. L’epilogo – Ciliegi nipponici, promenade al sepolcro illichiano – riporta lo spettatore alle atmosfere del prologo e all’omaggio al librettista: le muse hanno mutato aspetto e si sono adesso incarnate nei panni di Cio-Cio-San e di Wally, di Iris e di Isabeau, di Maddalena e di Nikona, tutti personaggi illichiani riuniti intorno al sacello in cerca dell’autore. Non si pensi, tuttavia, a una chiusa di carattere lagrimevole o, peggio, commemorativa: perché Schittino dapprima si diverte a mettere a dura prova le conoscenze degli spettatori – interpellati dal «fil di fumo» iniziale fino alla «morte insiem!» degli eroi rivoluzionari – ma poi decide di chiudere il cerchio, con ampio scarto linguistico, da Strauss agli Strauss: mentre «cadono petali di ciliegi in scena, come fosse neve», tutti inneggiano alla rinnovata unione tra melodia e poesia, in un tripudio che sembra non dover finire mai. Nelle ultime quattro battute, la fine del secondo atto di Tosca accompagna in pianissimo il tragico precipitare del sipario. [Rating:4/5]

Teatro Municipale – Stagione lirica 2019/20
L’OPERA MINIMA
Opera lirica in un proemio, dieci miniature melodrammatiche
parzialmente ispirate e liberamente tratte da Farfalle, effetti di luce di Luigi Illica,
e un epilogo di Claudio Santarelli
Musica di Joe Schittino

Calliope, Beghina, Elisa, Maria, Iris Renata Campanella
Melpomene, Beghina, Una madre alla culla, Jane Federica Sardella
Euterpe, Beghina, Maddalena di Coigny Eunbyul Cho
Clio, Amica, Wally Eri Arai
Talia, Butterfly Veronica Granatiero
Polimnia, La turista russa, Maddalena, Musetta Cinzia Chiarini
Tersicore, Nikona Jihye Kim
Erato, Natalia Mae Hayashi
Urania, Amica, Isabeau Paola Lo Curto
Spazzacamino, Lampionaio, Augusto, Emilio, Chénier Alessandro Fantoni
Fotografo, Lampionaio, Cavaradossi Rino Matafù
Frate, Pasticcere, Lampionaio, Gérard Lorenzo Sivelli
Vecchio sordo, Ortolano zoppo, Lavin Juliusz Loranzi

Orchestra Giovanile della Via Emilia
Direttore Giovanni Di Stefano
Fondali scenici Guido Morelli
Prima esecuzione assoluta, commissione del Teatro Municipale di Piacenza
Piacenza, 9 febbraio 2020