«Ah bravo Figaro, bravo, bravissimo!» C’è da unirsi al coro generale – immaginato dalla mente dello scaltro factotum – al termine del Barbiere di Siviglia, fulcro della programmazione straordinaria autunnale del Rossini Opera Festival, trasmesso in streaming gratuito dal Teatro Rossini di Pesaro, che purtroppo ci stiamo abituando a vedere tristemente vuoto, con la platea occupata dalla compagine orchestrale. Teatro vuoto non significa, però, spettacolo a scartamento ridotto: al ROF sanno come coccolare il pubblico e farlo sentire vivo e presente, anche in tempi di distanziamento sociale, con una sobrietà e un’eleganza che risiede nella cura dei dettagli. Alla trasmissione in diretta delle tre recite (lo spettacolo si potrà visionare ancora venerdì 27 e nella matinée di domenica 29 novembre) si accompagna così, in formato digitale, non soltanto un agile pieghevole con i nomi degli artefici dello spettacolo, ma anche il consueto, curatissimo programma di sala, con tanto di contributo d’epoca di Alberto Zedda, compianto nume tutelare della rassegna. Ancora, l’intervallo viene allietato da alcune testimonianze – di Ernesto Palacio, Aya Wakizono, Michele Pertusi e Manuela Gasperoni, responsabile degli allestimenti scenici – che intrattengono l’uditorio con pertinenti riflessioni sulla difficile stagione che il teatro lirico sta attraversando.
Il barbiere di Siviglia, ripresa del fortunato allestimento dell’estate 2018, è tutto fuorché una sterile ripetizione di recenti fasti: tra conferme e nuove arrivi, è spettacolo di ottimo livello, tale da ricordare come Pesaro si confermi capitale del belcanto rossiniano. A cominciare dallo spettacolo di Pier Luigi Pizzi, il primo Barbiere di una lunga serie di blasonati allestimenti dedicati al Pesarese, che già adesso appare per quello che, probabilmente, mirava a essere fin dall’inizio: un classico. Senza sbavature, ripulito da qualche eccesso, perfino valorizzato dalle ridotte dimensioni del palcoscenico del Rossini, soprattutto nel secondo atto, che al debutto era parso fagocitato dalle sconfinate dimensioni dell’Adriatic Arena. Forse non mette in scena Siviglia, ma l’archetipo, il modello di una qualsiasi, limpida città mediterranea, che le luci di Massimo Gasparon illuminano dalle prime luci di un’alba lattiginosa sino al fosco precipitare degli eventi del temporale: tutta in bianco e nero, calcinata e tersa, schematica e astratta, per sbalzare macchie pittoriche di grande effetto: lo scarlatto del mantello del Conte, le sfumature del turchese e del verde di Rosina, l’ametista di Berta e – con ironico spregio delle convenzioni teatrali – il viola riservato a Bartolo e Fiorello, quando questi accompagna l’incursione del finto Alonso. Non si pensi, tuttavia, a un Barbiere algido ed esangue: perché sin dal sorgere del sole la carne esulta e viene scoperta al sole, ora da Figaro che non esita a rinfrescarsi sulla pubblica piazza, ora da Berta che denuda Ambrogio per comprendere quel «certo ardore che nel core dà un tormento». Contenuto ma non inconsistente, il gioco scenico è prezioso, ricercato, accurato: con alcuni momenti particolarmente riusciti, come il carillon di gesti e sentimenti del concertato ‘di stupore’, destinato a sciogliersi nella passerella della stretta che suggella il Finale I; o l’intera scena di don Alonso (cantata tutta in ginocchio, per dimezzarne l’altezza), semplicemente irresistibile e ormai irrinunciabile.
Il Barbiere di Rossini viene così illuminato da una luce di calda complicità e di olimpico equilibrio. Per capirlo, basta vedere il sorriso radioso di Michele Spotti, quando sale sul podio della duttile Orchestra Sinfonica G. Rossini, per dirigere una Sinfonia semplicemente esemplare. Articolazioni stringate ma al tempo stesso morbide, dinamiche minutamente calibrate e affettuosamente carezzate sono le fondamenta poste alla base di un Rossini trasparente e teatralissimo, incalzante ed efficace, ma senza eccessi, accelerazioni forsennate, rovinosi scompensi. Serissimo, semmai, in certi tratti: come l’Allegro con brio, stringato e sferzante, che lascia spazio a un cantabile in cui oboi e corni s’inseguono e s’incalzano in un cicaleccio brillante, nitido, definito dai dettagli di un’agogica sempre rotonda, sensibilissimo termometro di un’inarrestabile joie de vivre. Che non abbia fretta di affrontare altri repertori: qui e ora Spotti conquista la palma di miglior rossiniano dell’ultima, giovanissima generazione, accompagnatore egregio di trame che tanto più intrigano quanto più s’infittiscono, con una sicurezza di passo che ricorda l’Abbado degli anni d’oro della riscoperta di Rossini. Una lezione d’italianità, perfettamente coniugata con la dimensione europea della cultura musicale del Pesarese. Due postille, tuttavia, s’impongono. La prima riguarda Richard Barker, il re dei continuisti rossininani, che qui si avvale del contributo al cello di Anselmo Pelliccioni: per dipanare il vitalissimo supporto a recitativi che di rado è dato ascoltare con tanta strepitosa, smagliante spigliatezza teatrale, anticipazione o commento di quanto parola e musica in sintesi esprimono, e che così diventa pensiero al quadrato, trionfo di ironia e di straordinaria sagacia. La seconda concerne invece il minuscolo ma valoroso drappello del Coro maschile del Teatro Ventidio Basso, istruito da Giovanni Farina: appena dodici elementi, nell’Introduzione e nel Finale I, che sono un’autentica macchina a orologeria di sfumature e di precisione ritmica.
Complessivamente di pregio risulta anche la compagnia di canto, per più della metà già in scena nella passata edizione. Si disimpegnano sempre con efficacia l’indaffaratissimo Ambrogio di Armando De Ceccon, William Corrò assai convincente sia come Fiorello sia come Ufficiale; mentre Elena Zilio tratteggia con sapida arguzia il cammeo di Berta, più sul piano attoriale che su quello vocale – ormai invero sul viale di un glorioso tramonto. A dispetto di qualche segno di affaticamento, dopo il recente trionfo bergamasco, Michele Pertusi si conferma punta di diamante nell’interpretazione del belcanto di primo Ottocento. Qui scolpisce con lo scalpello della ‘parola scenica’ – verdiana ante litteram – un Basilio che costituisce il contrappasso ‘nero’ e infernale di Figaro: geniale e veniale, scevro da spunti caricaturali, semplicemente perfetto nell’Aria della «Calunnia», in cui il celeberrimo crescendo viene dosato fino all’apertura-esplosione di una bottiglia di vino; ma soprattutto in un Quintetto di cui diventa regista, manipolatore, trascinante burattinaio. Ha guadagnato in sicurezza e affidabilità, invece, la Rosina di Aya Wakizono, che ha avuto modo di approfondire la scrittura rossiniana, dando prova non soltanto di fluidità nella coloratura e di bello smalto mezzosopranile – appena increspato negli acuti; ma anche di un fraseggio insinuante e accattivante, deliziosamente amministrato nel corso di tutta l’opera. Si vede proprio che si diverte, soprattutto nell’Aria della lezione, che attacca con ironico cipiglio, affronta con il rigore del repertorio serio e poi conclude con variazioni particolarmente felici: in tutti i sensi del termine.
Non è possibile affermare lo stesso, purtroppo, per l’esotico Figaro di Iurii Samoilov, che pure ha approfondito un’intrigante visione del ruolo. Dipinge una figura spregiudicata ed espansiva, dominata da una cupidigia di cui avverte tutta la carica erotica; e per questo è presenza mercuriale, sfuggente eppur sempre presente, spirito positivo baciato dalla fortuna. Dispone di una voce ben timbrata, che tuttavia deve ancora acclimatarsi al dettato rossiniano, segnatamente nei sillabati (la stretta del duetto col Conte), in cui ancora latitano rigore e puntualità. Pur molto curata, anche la pronuncia italiana perderà col tempo quel retrogusto slavo, che ancora la connota. L’autentica lezione, in tal senso, la fornisce l’ottimo Bartolo di Carlo Lepore, che forse non gode più dello smalto di un tempo, ma denota grande padronanza dello stile buffo rossiniano: con un piccolo capolavoro in «Quando mi sei vicina», in cui agevolmente trascorre dal falsetto acuto al registro grave, con risultati godibilissimi.
Del pari convince l’Almaviva di Juan Francisco Gatell, abile nell’addomesticare un timbro non certo incantevole (e anzi decisamente nasale nella Serenata) grazie all’omogeneità dell’emissione lungo tutta la gamma, alla superba nobiltà del legato, a una facilità della coloratura, che snocciola con disinvolta capacità di persuasione. E se risulta esilarante il suo Alonso in salsa spagnola, sibilante come una serpe velenosa, definitivamente conquista con la grande Aria finale, «Cessa di più resistere», temibile banco di prova che lo vede in gran spolvero nelle sfavillanti roulades, inanellate con galvanizzante fervore e garbata freschezza. È vero, «Costò sospiri e pene | Un sì felice istante», come conclude Rosina, forse mai come questa volta: ma ne è valsa la pena.
Teatro Rossini – Rossini Opera Festival
IL BARBIERE DI SIVIGLIA
Commedia in due atti di Cesare Sterbini
Musica di Gioachino Rossini
Edizione critica della Fondazione Rossini, in collaborazione con Casa Ricordi,
a cura di Alberto Zedda
Il Conte d’Almaviva Juan Francisco Gatell
Bartolo Carlo Lepore
Rosina Aya Wakizono
Figaro Iurii Samoilov
Basilio Michele Pertusi
Berta Elena Zilio
Fiorello / Un ufficiale William Corrò
Ambrogio Armando De Ceccon
Orchestra Sinfonica G. Rossini
Coro del Teatro Ventidio Basso di Ascoli Piceno
Direttore Marco Spotti
Maestro del coro Giovanni Farina
Fortepiano Richard Barker
Violoncello al continuo Anselmo Pelliccioni
Chitarra Eugenio Della Chiara
Regia, scene e costumi Pier Luigi Pizzi
Regista collaboratore e luci Massimo Gasparon
Spettacolo visionabile in streaming al link:
https://www.youtube.com/watch?v=XC0viUT3x-g&feature=emb_logo
Pesaro, 25 novembre 2020