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Pesaro, Rossini Opera Festival 2020 – Recital di Juan Diego Flórez

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Feeling at home, sentirsi a casa. È questa la sensazione che evidentemente Juan Diego Flórez percepisce quando si esibisce al Rossini Opera Festival di Pesaro, di cui è presenza fissa fin dal rocambolesco, funambolico debutto del 1996, quando in pochissimo tempo riuscì a vestire i panni di Corradino in Matilde di Shabran; ma anche nel corso delle altre sue ventitré presenze alla kermesse, tra opere liriche e concerti, in cui ha scandagliato una parte assai cospicua del repertorio rossiniano, segnatamente nei ruoli più impervi. Ormai da anni residente nella cittadina marchigiana, era quasi scontato che fosse tra gli ospiti del festival per l’edizione 2020, certo atipica rispetto all’organizzazione tradizionale; lo era meno il programma di Rarità rossiniane con cui si è presentato al pubblico che gremiva piazza del Popolo, tutti brani in cui si cimentava per la prima volta, con l’unica eccezione dell’Italiana in Algeri.

Il titolo prescelto, peraltro, faceva riferimento non già unicamente ai pezzi selezionati da Flórez, ma anche alle pagine orchestrali poste a corollario: un percorso di ricerca, insomma, che perfettamente si attaglia alle finalità di un festival, e che permette di scoprire pagine di rara esecuzione. Da qui l’interesse per gli interventi della Filarmonica Gioachino Rossini – invero sempre in affanno nell’eseguire le pagine del musicista cui è intitolata, con gli archi dal suono liofilizzato, legni e ottoni dagli impasti avventurosi nei passaggi concertanti, segnatamente nel Turco in Italia – ma che certo ritrova quadratura e naturalezza grazie al gesto limpido e scattante di Michele Spotti, che non è più una giovane promessa ma una certezza del panorama direttoriale italiano. Dopo breve ma intensa frequentazione con Rossini, in particolare, dimostra tutta la sua consentaneità con un repertorio che affronta con il necessario mordente, ma anche con la capacità di accompagnare, di assecondare il canto, che si rivela come una qualità essenziale nel legare orchestra e palcoscenico. L’intelligenza interpretativa consiste anche nel dosare sonorità e agogiche nelle tre Sinfonie giovanili, sicuramente illuminanti per cogliere le primizie di un genio in progress, ma che occorre riproporre con il giusto equilibrio: perfettamente dosato nella più nota di queste partiture, la Sinfonia scritta al Conventello scritta dal musicista appena quattordicenne, ma che emerge in maniera flagrante nella più interessante tra quelle proposte, la Sinfonia obbligata a contrabbasso, che nel tono assertivo dell’incipit rivela la pronta assimilazione dei moduli compositivi haydniano-mozartiani, pronti però a schiudersi a una cantabilità sorgiva, naturalissima, solare. È, anche, un’occasione per riflettere su quanto il celeberrimo crescendo sia materia su cui Rossini comincia a riflettere sin da giovanissimo e costituisca un’originale tecnica di elaborazione tematica: il rincorrersi del tema principale tra le varie sezioni orchestrali, che Spotti rimbalza con leggerezza trasognata, tratteggia una finissima trama melodica, esaltata nel trascinante finale.
Il tributo alle novità del linguaggio rossiniano, elaborato agli inizi del secolo, trova eco negli altri due componimenti strumentali, che fanno invece riferimento al periodo parigino. Semplicemente trascinante è l’esecuzione dell’Ouverture da Robert Bruce, il secondo pasticcio presentato da Rossini al pubblico dell’Opéra sul finire del 1846, approntato con la collaborazione di Louis Niedermeyer a partire da materiale preesistente. Per lo spettatore contemporaneo – ma forse anche per quello coevo – è una sorta di gioco a quiz, per cogliere cosa si nasconde nel centone assemblato: in questo caso si comincia con l’Introduzione di Zelmira, si procede con un frammento dalla Sinfonia di Armida, per chiudere sulla stretta del Finale I della Donna del lago. Il direttore lombardo coglie il soffio narrativo di questo pezzo antologico, l’empito romantico di un pot-pourri talmente accattivante, dal farne auspicare una nuova ripresa, dopo quella di Martina Franca del 2002. E per concludere arriva anche il pimpante Pas de deux da Guillaume Tell, nella versione originale del 1829, in cui si riesce a immaginare la sontuosità della scrittura orchestrale perfezionata da Rossini a Parigi.

Ma certo i riflettori erano tutti puntati su Flórez, che era e rimane il più grande rossinista del momento. Molto poco, infatti, sembra cambiato della sua organizzazione vocale in quasi un quarto di secolo: rimane invariata una superiore eleganza nella coloratura, autentica cascata di perle che vengono sciorinate con invidiabile naturalezza; come un fraseggio sempre penetrante, aulico, sbalzato con raffinato senso della frase. Il timbro, piuttosto, è più rotondo, tornito, privo di quelle sfumature nasali che erano più evidenti in gioventù; e se inizialmente l’omogeneità lungo tutta la gamma sembra leggermente compromessa nei sovracuti, basta superare i primi due pezzi perché ritrovi coesione e lucentezza lungo tutto l’arco espressivo. Il concerto pesarese, peraltro, gli ha consentito di mettere la sua indiscutibile padronanza della grammatica rossiniana al servizio di alcuni pezzi rari, uno dei quali in prima esecuzione, la conclusione alternativa “Ah! Ch’io sento in mezzo al core” al Recitativo e Aria di Giocondo, dalla Pietra del paragone. Interpreta, infatti, ben quattro arie alternative, spalancando una finestra sulla prassi esecutiva dell’Ottocento e valorizzando materiale che, opportunamente, viene collazionato nelle edizioni critiche: brani composti su richiesta di cantanti diversi da quelli della prima esecuzione, che non mutano certo la concezione iniziale dell’autore ma ne certificano la capacità di adattamento a contesti ed esecutori diversi. Il numero forse più noto è la Cavatina alternativa di Lindoro, “Concedi, amor pietoso”, che risale a una ripresa milanese dell’Italiana in Algeri, nel 1814, e che lo stesso Flórez peraltro ha già inciso nel suo primo album rossiniano del 2000. Ma risulta non meno interessante la Cavatina alternativa di Giacomo “T’arrendi al mesto pianto”, per La donna del lago, battuta all’asta solo tre anni or sono in una libreria antiquaria fiorentina, che in realtà deriva da Ermione e che Flórez gratifica di un florilegio di puntature all’acuto, nel da capo della cabaletta; mentre dall’edizione critica di Margaret Bent del Turco in Italia deriva la Cavatina alternativa di Narciso, “Un vago sembiante” – scritta per Giovanni Battista Rubini ed eseguita anche di recente nell’ultima ripresa scaligera – che s’impone per il ‘todeschismo’ degli strumenti concertanti. L’aria per tenore e orchestra “Alla gloria un genio eletto”, scritta per integrare I pretendenti delusi di Giuseppe Mosca, pone il suggello alla preziosa: con un pregevole andante intermedio, “Dono del ciel benefico”, in cui il tenore fa valere l’aristocratica superiorità di un legato a fior di labbra. Scelte di altissimo profilo, come si vede, che sarebbe bello se venissero preservate a futura memoria come splendido documento delle convenzioni performative di primo Ottocento.

Tenere la barra a un livello così alto, naturalmente, poneva legittime aspettative – anche per la relativa brevità del recital, che di poco superava un giro di lancette – per quanto riguarda i bis. Ed è difficile celare la delusione di fronte alla scelta di ricomparire in scena con l’ormai consueto sgabello e la chitarra per riproporre un’antologia di brani della tradizione latino-americana, peraltro cantata in maniera esemplare, ma che certo aveva scarsa – per non dire nessuna – connessione con il programma doviziosamente impaginato in precedenza; accordata altresì con il desiderio di accontentare presunti gusti del pubblico, che al Rossini Opera Festival sono ben diversi da quelli di altre, pur prestigiose sale concertistiche internazionali. Così, Flórez ha avviato un breve, ma significativo viaggio dal Messico di Bésame mucho, intonato con prezioso di gioco di mezzevoci e sapiente uso del rubato, nelle variazioni dell’ultima strofa; all’Argentina del tango El día que me quieras di Carlos Gardel, dal tono nostalgico e sognante, quindi più incalzante nella ripresa (“La noche que me quieras”); di nuovo al Messico di Cielito lindo, esaltante nel cambio di registro – di testa e poi in falsetto – con il ritornello sostenuto dagli applausi del pubblico. Al povero Spotti, rimasto in buca con l’intera orchestra, è poi toccato accompagnare La danza di Rossini, ancora una volta con il supporto ritmato della platea; per poi riprendere con una canzone della tradizione colta napoletana, Marechiare, con perfetto accento partenopeo; che subito trapassa – in maniera quasi inesorabile – nell’irrinunciabile Paloma. Sentirsi a casa, si diceva, è il sentimento che Flórez prova a Pesaro. Forse troppo, a giudicare dalla libertà di queste scelte, che andrebbero meglio ponderate, se non decisamente evitate.

Rossini Opera Festival 2020
RARITÀ ROSSINIANERECITAL DI JUAN DIEGO FLÓREZ

Gioachino Rossini
Sinfonia del Conventello
La pietra del paragone, Recitativo “Oh! come il fosco impetuoso nembo”
e Aria di Giocondo “Quell’alme pupille”, con la conclusione alternativa “Ah! Ch’io sento in mezzo al core”

Robert Bruce, Ouverture
L’Italiana in Algeri, Cavatina alternativa di Lindoro “Concedi, amor pietoso”
Sinfonia in re maggiore
La donna del lago, Cavatina alternativa di Giacomo “T’arrendi al mesto pianto”
Sinfonia obbligata a contrabbasso
Il Turco in Italia, Cavatina alternativa di Narciso “Un vago sembiante”
Guillaume Tell, Pas de deux (versione Parigi, 1829)
Alla gloria un genio eletto, Aria per tenore e orchestra

bis
Consuelo Velázquez, Bésamemucho
Carlos Gardel, Eldíaque me quieras
Quirino Mendoza y Cortés, Cielito lindo
Gioachino Rossini, La danza
Francesco Paolo Tosti, Marechiare
Sebastián Iradier, La paloma

Filarmonica Gioachino Rossini
Direttore Michele Spotti
Pesaro, piazza del Popolo, 16 agosto 2020

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