Cronaca di una metamorfosi. Superati brillantemente i primi quarant’anni, il Rossini Opera Festival di Pesaro si rinnova nelle forme e nei contenuti, anche a causa della pandemia che impone misure di sicurezza gestite con grande cura e attenzione degli spettatori. Per questo, riprendendo una tradizione avviata sin dalla serata inaugurale del 1983, ma che ha raggiunto il culmine tre anni più tardi, piazza del Popolo, ombelico dello scenario urbano pesarese, è diventata sede privilegiata di una serie di recital, che punteggiano le recite della Cambiale di matrimonio in programma al Teatro Rossini. Nel 1986 era stata la volta di due memorabili protagoniste della Rossini Renaissance, Marilyn Horne e June Anderson, seguite da Luciano Pavarotti; mentre quest’anno l’imponente palcoscenico allestito a ridosso del Teatro Sperimentale, su cui si staglia una tela del Ricciardo e Zoraide di due anni or sono, accoglie la più giovane generazione di interpreti rossiniani.
La metamorfosi, tuttavia, non coinvolge unicamente il Festival, ma – nel caso in questione – anche l’artista che ha accompagnato la notte di Ferragosto, Jessica Pratt: alle prese con un programma che sarebbe riduttivo definire impegnativo, e che ha riservato non poche sorprese sulle scelte di repertorio che l’artista britannica sta affrontando in questa fase della sua carriera. È d’obbligo, tuttavia, formulare alcune premesse in merito. La prima concerne l’esecuzione del belcanto: la dimensione della piazza le è del tutto estranea e non aiuta certo gli artisti, anche laddove – come in questo caso – essi siano supportati da un eccellente quanto discreto sistema di amplificazione, che peraltro facilita la visione del recital, proiettato su due schermi posti ai lati del palcoscenico. La seconda riguarda la scelta di tagliare gli interventi del coro, forse dettata dalle limitazioni contingenti; ma che soprattutto nelle arie e scene delle opere francesi riveste un ruolo fondamentale, e che avrebbe dato ben altro spessore all’antologia proposta. L’ultima, infine, interessa l’intervento della Filarmonica Gioachino Rossini, che francamente arranca nel seguire la forse volenterosa bacchetta del giovanissimo Alessandro Bonato: latita di coesione e di assieme, di precisione e di slancio, tanto nelle Sinfonie del Signor Bruschino – quella celeberrima dei colpi d’archetto dei violini secondi sul leggio, che peraltro non vengono ripresi in video – e di Tancredi, quest’ultima tirata via con scarsa convinzione, quanto nella monumentale Ouverture del Siège de Corinthe, in cui si attende invano il respiro e la grandiosità di toni dell’estrema tragédie lyrique rossiniana. Meglio sembrano procedere le cose nelle due pagine donizettiane: la Sinfonia da Don Pasquale, di cui Bonato coglie la dimensione notturna, e quella dalla Fille du régiment, in cui però si trova a disagio la fanfara conclusiva dall’accento ironicamente pompier. Ma è soprattutto nell’accompagnare la protagonista che viene fuori un suono graffiato e morchioso, oltre ad alcuni scarti – nel tempo di mezzo dell’Air de Pamyra come nel bis conclusivo – che visibilmente increspano il rapporto tra la scena e la buca. Ed è un vero peccato, perché una compagine che avesse dato prova di pregnanza e smalto esecutivo avrebbe certo potuto dare un contributo sostanziale al buon andamento della serata.
Prendendo le mosse da tre imponenti pagine rossiniane, il recital di Jessica Pratt valica i confini tra repertorio italiano e francese di primo Ottocento, fino ad approdare al Verdi della Traviata: quasi a voler esplorare il duplice versante di compositori che, conquistati gli allori della Penisola, ricercavano la consacrazione della capitale francese, in una guerra di conquista dei palcoscenici parigini – violentemente osteggiata da Berlioz – che raggiungerà il culmine con le creazioni di Donizetti del biennio 1839-1840. Ma è una scelta che si attaglia particolarmente bene anche alla vocalità del soprano, che se mantiene intatta la facilità nel registro acuto e sovracuto – a discapito di lievi segni di stanchezza – s’impone soprattutto nel patetismo larmoyant delle pagine francesi. Il nitore e la fluidità della coloratura stanno lasciando spazio a una dimensione più pensosa e meditativa, valorizzata dalla perfezione di un legato esemplare, dall’arte preziosa delle filature, dalla tenuta di fiati lunghissimi.
Le tre grandi arie rossiniane, tuttavia, impongono qualche distinguo. Perché se Amenaide perfettamente rientra nella tassonomia prima accennata e vedono Pratt interprete sicura e coinvolgente – la preghiera della vergine siracusana risuona di intime, raccolte vibrazioni che poi si sciolgono nell’esultanza trionfale della cabaletta– è con maggior circospezione e cautela che affronta tanto la sortita della Comtesse Adèle dal Comte Ory, quanto la gran scena di Pamyra, su cui si apriva il sipario del II atto del Siège de Corinthe, alla prima del 1826, e che venne cassata sin dall’edizione pubblicata da Troupenas l’anno successivo. Entrambi composti per Laure Cinti-Damoreau, ambasciatrice dell’opera rossiniana a Parigi dalla prima francese di Elisabetta regina d’Inghilterra fino a Guillaume Tell, i ruoli di Adèle e Pamyra non soltanto richiedono una notevole varietà di sfumature psicologiche, ma si rivelano cartina di tornasole del laboratorio creativo rossiniano, sotto il profilo formale: per questo l’assenza degli interventi corali ne sminuisce considerevolmente la portata, limitando la complessità delle scelte espressive poste in campo dal compositore. Pratt coglie l’aspetto fintamente lagrimevole della cavatina di Adèle, ma i «feux brûlants» della contessa per Isolier sembrano essersi spenti in una lettura sempre vigile, ma fin troppo attenta al dettaglio per lasciar trasparire la malinconica leggerezza, venata d’ironia, dei reali propositi della casta contessa. Più articolata è la gran scena di Pamyra, in cui il soprano scolpisce le angosce del Récit, “Que vais-je devenir?”, prima di approdare all’aria tripartita. Nonostante l’eleganza della cabaletta finale, è negli scarti intervallari della perorazione iniziale “Ô Patrie infortunée” che emerge tutto il carattere eroico del personaggio, restituito con bella capacità di alleggerire la coloratura di forza nell’andantino intermedio. Sono felici intuizioni, all’interno di un’esecuzione stilisticamente ineccepibile, ma in cui si attende invano la spavalda sicurezza, la sprezzatura richiesta per brani così complessi e difficili.
Sontuosamente abbigliata con un (unico) abito color pervinca, l’artista riguadagna terreno non tanto nella cavatina di Norina, animata da un rigore ben lontano dal «riso» che anima la vedova scaltra, quanto nella Cavatine di Marie dalla Fille du régiment: ancora una volta per lo scavo interpretativo del recitativo, per la limpida, commovente perfezione della ricerca del suono in “Par le rang et par l’opulence”, ma soprattutto per la scattante, contagiosa marzialità del “Salut à la France!”, che ne rivela la garbata vivacità interpretativa – come un retrogusto di pronuncia in franglais alla Sutherland, particolarmente divertente.
E poi arriva il Finale I della Traviata: che sulla carta poteva sembrare un omaggio alla ‘piazza’, più che la degna conclusione di un recital di belcanto. Qui finalmente si libera dal leggio, al quale è rimasta legata durante tutta l’esecuzione, per assestare la zampata della grande artista, che evidentemente sta maturando anche approdi più lirici, con un approfondimento del personaggio che non tralascia l’eccellenza dell’apporto virtuosistico, ma lo piega a scopi espressivi. Basti citare, in questo senso, il connotato febbrile che assumono le temibili volatine del “gioir” che precede l’esplosione della cabaletta, per capire la singolare commistione di abbandono e dubbio, di entusiasmo e dolore che Violetta esprime, in una delle pagine più complesse del repertorio ottocentesco.
La belcantista di sempre risponde al caloroso consenso del pubblico con un unico bis donizettiano: la sortita della protagonista di Linda di Chamounix, ruolo che le sta a pennello e che perfettamente incarna semplicità e smarrimento, cifra interpretativa privilegiata dell’artista. “O luce di quest’anima” è autentica girandola di fuochi d’artificio, tutta giocata sulla leggerezza degli staccati come sulle liquide quartine di biscrome, su cui scivola con grazia inarrivabile. L’ultima mezz’ora del recital, così, alterna uno sguardo al passato di brillante usignolo con uno al futuro di lirico: nell’ambito di un percorso articolato, di cui sarà bello scoprire le tappe future.
Rossini Opera Festival 2020
RECITAL DI JESSICA PRATT
Musiche di G. Rossini, G. Donizetti, G. Verdi
Gioachino Rossini
Il signor Bruschino, Sinfonia
Le Comte Ory, Air de la Comtesse “En proie à la tristesse”
Tancredi, Sinfonia
Tancredi, Recitativo “Gran Dio! deh, tu proteggi” e Aria di Amenaide “Giusto Dio che umile adoro”
Le Siège de Corinthe, Ouverture
Le Siège de Corinthe, Récit “Que vais-je devenir?” et Air Pamyra “Ô Patrie infortunée!”
Gaetano Donizetti
Don Pasquale, Sinfonia
Don Pasquale, Cavatina di Norina “Quel guardo il cavaliere”
La Fille du régiment, Sinfonia
La Fille du régiment, Récit “C’en est donc fait” et Cavatine de Marie “Par le rang et par l’opulence”
Giuseppe Verdi
La traviata, Aria di Violetta “È strano!… è strano!…”
bis
Gaetano Donizetti
Linda di Chamounix, Recitativo “Ah! Tardai troppo” e Cavatina di Linda “O luce di quest’anima”
Filarmonica Gioachino Rossini
Direttore Alessandro Bonato
Soprano Jessica Pratt
Pesaro, piazza del Popolo, 14 agosto 2020