Il Festival Verdi di Parma, rimodellato a causa della pandemia, non rinuncia alla sua missione e presenta al pubblico – in forma di concerto, nella cornice del Parco ducale – una prima assoluta del Cigno di Busseto: la ripresa della prima esecuzione, avvenuta a Parigi nel 1865, di Macbeth, allora tradotto in francese da Charles Louis Étienne Nuittier e Alexandre Beaumont.
Piccola precisazione storica. Verdi, ricevuto l’incarico nel marzo 1864 dal direttore del Théâtre Lyrique Impérial Léon Carvalho, lavorò sulla revisione in italiano affidata a Francesco Maria Piave (con vari cambiamenti rispetto al 1847). Questa, che è la versione normalmente eseguita nei teatri di tutto il mondo, venne poi tradotta in francese dai due letterati citati, che peraltro avevano già tradotto i libretti di Die Zauberflöte e Tannhäuser.
L’edizione critica della partitura, curata da David Lawton, è stata revisionata dalla musicologa Candida Mantica, salita recentemente alla ribalta delle cronache per il recupero de L’ange de Nisida, il capolavoro perduto di Gaetano Donizetti. Macbeth, capolavoro lo è e l’ascolto di questa versione francese nulla aggiunge alla potenza e alla profondità della creazione verdiana, primo, deflagrante incontro con Shakespeare. Costituisce tuttavia un’occasione per riflettere sul tema delle traduzioni e delle diversità timbriche e prosodiche tra le due lingue. Tanto che la traduzione francese non può risultare sempre fedele alla lettera del testo italiano e talvolta attinge addirittura all’originale shakespeariano, senza contare l’alterazione nella dimensione di alcuni pezzi. Ciò detto, nella versione francese si apprezzano indubbiamente di più i ballabili, scritti appositamente per Parigi e spesso espunti dalle esecuzioni odierne.
Inoltre, il Macbeth francese – almeno al nostro orecchio di appassionati della cultura “gallica” – assume giocoforza un tono più aulico, smussando talune asperità della lingua ma al tempo stesso perdendo quella schietta e a tratti efficacissima poesia del libretto italiano. Perfetto esempio, quest’ultimo, di una letteratura risorgimentale sempre a rischio di scivolare nella retorica, portatrice sì di lontani echi foscoliani ma di fatto esemplata sul non altrettanto ispirato verseggiare manzoniano.
In un’opera dove il colore ambientale ha un ruolo fondamentale, quale sfondo al massimo rilievo conferito alla parola e al suo peso drammatico, il direttore Roberto Abbado punta anzitutto su un suono vibrante, lineare e rotondo, perfetto per schizzare un’atmosfera ferrigna, a tratti cupa e barbarica. Alla testa dell’ottima Filarmonica Toscanini, il maestro sa anche restituire con grande efficacia l’aura misteriosa e sospesa di diverse pagine, senza concessioni all’effetto ma al contrario identificando e valorizzando i climax drammatici. Sapiente il dosaggio delle sonorità nei concertati, sempre sostenuti da un incisivo andamento ritmico.
Eccellente nel complesso il cast. A cominciare da Ludovic Tézier, al suo debutto al Festival Verdi, un Macbeth introverso e tormentato, che scava tra le pieghe del fraseggio, chiaroscurato in una varietà d’accenti accompagnata sempre da una costante nobiltà nella linea di canto. Il timbro vanta poi un bel colore, mentre l’emissione è sempre robusta e omogenea. Al suo fianco, la notevolissima Lady di Silvia Dalla Benetta, chiamata pochi giorni prima del debutto a sostituire l’indisposta Davinia Rodriguez. Il soprano veneto non punta solo sulla ferinità, ma, complice la ricchezza di un timbro morbido e lucente soprattutto nei centri, fa della sensualità un’arma ulteriore a servizio della sua smisurata ambizione. Dal canto si sprigiona così una sorta di profumo di femminilità che conferisce ulteriore fascino a un’anima contorta e inquietante. La nettezza d’articolazione di ogni frase altro non è che la capacità di renderne il senso attraverso un gioco sfumatissimo di dinamica e spessore del suono. Qualità, queste, che già avevamo apprezzato quando il soprano cantò nell’edizione italiana dell’opera andata in scena lo scorso anno nei teatri del circuito lombardo. Quella di Dalla Benetta, in definitiva, è una ricerca costante di un’espressività che nasce dalla parola, proprio come voleva Verdi. E poco importa se alcuni acuti risentono di qualche piccola forzatura.
Con voce imponente, vellutata e rocciosa, Riccardo Zanellato è un Banquo che cesella la sua grande aria con fraseggio analitico e una compostezza austera e commossa. Giorgio Berrugi è un Macduff dalla voce brunita e morbida; la “paterna mano” (che nella versione francese diventa “Ah! C’est la main d’un père”) è molto ben cantata, con notevole musicalità e bel piglio. Incisivo e sonoro il Malcolm di David Astorga, così come ottimi sono stati Jacobo Ochoa (basso dal bel colore scuro, interprete di diversi piccoli ruoli), Natalia Gavrilan (La Comtesse), Francesco Leone (Un médicin), Pietro Bolognini (Seconde fântome) e Pilar Mezzadri Corona (Troisième fântome). Eccellente, comme d’habitude, il Coro del Teatro Regio, istruito da Martino Faggiani.
Una nota sulla resa audio: l’esecuzione, tecnicamente non era amplificata ma spazializzata, con un buon equilibrio tra voci e strumenti e una bella profondità di suono.
Festival Verdi 2020
MACBETH
In forma di concerto
Versione di Parigi (1865)
Melodramma in quattro parti su libretto di Francesco Maria Piave e Andrea Maffei, da Shakespeare.
Traduzione in francese di Charles Louis Étienne Nuitter e Alexandre Beaumont.
Musica Giuseppe Verdi
Revisione a cura di Candida Mantica sull’edizione critica a cura di David Lawton
The University of Chicago Press, Chicago e Casa Ricordi, Milano
Macbeth Ludovic Tézier
Lady Macbeth Silvia Dalla Benetta
Banquo Riccardo Zanellato
Macduff Giorgio Berrugi
Malcolm David Astorga
Un médecin Francesco Leone
La Comtesse Natalia Gavrilan
Un serviteur/Un sicaire/Premiere fantôme Jacobo Ochoa
Seconde fantôme Pietro Bolognini
Troisième fantôme Pilar Mezzadri Corona
Filarmonica Arturo Toscanini
Coro del Teatro Regio di Parma
Direttore Roberto Abbado
Maestro del coro Martino Faggiani
Parma, Parco ducale, 13 settembre 2020