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Palermo, Teatro Massimo – Parsifal

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Parsifal o dell’irrisolta memoria del passato. Basta entrare nel foyer del Teatro Massimo di Palermo per rendersi conto che la Storia è passata da lì: allestito per l’occasione inaugurale della nuova stagione lirica, ospita infatti l’harmonium su cui Richard Wagner ultimò la composizione di Parsifal, nei primi giorni del 1882, ospite del lussuoso Grand Hôtel et des Palmes, a pochi metri dal sito dove era in costruzione il teatro. Erano anni felici, per la Palermo liberty dei Basile e dei Whitaker: dove soggiornava non solo l’autore del Ring, in cerca d’ispirazione per gli ultimi ritocchi del capolavoro, ma anche Pierre-Auguste Renoir, che ne avrebbe approfittato per dipingerne il celeberrimo ritratto – oggi gemma del Museo dell’Opéra di Parigi – dove figurava come «l’embrione di un angelo inghiottito da un epicureo», secondo la suggestiva descrizione di Cosima. Parsifal è ritornato al Teatro Massimo dopo un’assenza di 65 anni: occasione preziosa per legarsi a una storia dell’interpretazione che, nel frattempo, ha fatto un significativo balzo in avanti (erano i tempi gloriosi, quelli, di Tullio Serafin e Ramón Vinay) e riflettere sulla drammaturgia wagneriana contemporanea.

L’ingresso in sala è un formidabile colpo d’occhio: l’immenso palcoscenico è vuoto, porge allo sguardo dello spettatore la nudità delle sue pareti, delle sue impalcature, della vastità del suo spazio. Si fa moderno tempio vuoto, che la musica riempie con il fascino indiscreto della sua inquietudine. Quasi scaturite da una dimensione aurorale, le prime battute sono, infatti, accompagnate dal calare della tela, per focalizzare l’attenzione sull’impegno dell’orchestra, sul tema dell’Ultima cena che si libra etereo, nell’unisono di archi e fiati. Un impegno ma soprattutto una scommessa, che non sembra per nulla intimorire Omer Meir Wellber, giovanissimo, nuovo direttore musicale del teatro siciliano, che così avvia il suo mandato a capo di un’orchestra che, in anni recenti, ha già avuto modo di misurarsi con il Ring. Il risultato è invero mirabile, almeno per due ragioni. La prima risiede in una ricerca timbrica che privilegia un suono rotondo, tornito, italiano: in cui perfettamente s’inserisce la pastosità degli ottoni, la morbida eco dei legni, ma soprattutto la pienezza della sezione degli archi. Con gesto ampio ma sempre vigile, il direttore plasma il suono per ottenere il suo secondo, non meno nobile obiettivo: quello di accompagnare il canto, evitando una retorica ridondante e anzi assottigliando gli impasti, per esempio nel memorabile racconto di Kundry del secondo atto. Ne deriva un Wagner asciutto, essenziale, sensuale ma mai languido, dolorosamente vibrante ma dal passo drammatico incalzante: punteggiato di silenzi, eloquente testimonianza del dubbio della fede, ma che si schiude alla grandezza soggiogante dell’Incantesimo del Venerdì santo, in cui si ammira un magistrale effetto di spazializzazione del suono, ottenuto collocando le campane all’ingresso della platea. Schiude il passo, così, a un’interpretazione modernamente laica dell’opera, sulla scorta di un’oggettività critica che discende, per li rami, dal magistero di Boulez e dalla lezione del suo maestro, Barenboim; ma che scopre la dimensione del sacro e ne impregna l’intera sala, contenitore di una riflessione non soltanto musicale, ma più scopertamente metafisica.

Su questa lunghezza d’onda si colloca l’intera distribuzione vocale, estranea a una lettura muscolare della partitura (una volta la si definiva ‘eroica’) perché attenta alla trama fittamente, intensamente dialogica, su cui si fonda la gran parte dell’azione. Julian Hubbard costruisce in crescendo il personaggio di Parsifal, passando dalla dimensione fanciullesca e arruffata del primo atto a quella più matura degli altri due: in cui sfodera invidiabile freschezza, fondata su un metallo argenteo, squillante nel registro acuto ma al tempo stesso provvisto di una morbidezza, di una dolcezza interrogativa e pensosa. Lungo tutto il suo percorso, conferisce all’opera i tratti del racconto di formazione, fin quando assume il ruolo di guida non già di una comunità coesa, ma di un mondo ormai privo di senso. Di rango le voci gravi, a cominciare dal poderoso Klingsor di uno straordinario Thomas Ghazeli, dalla vigoria incontenibile e fin quasi selvatica; e l’ottimo Amfortas di Tómas Tómasson, di soggiogante presenza scenica come di pregevole musicalità: quasi che ogni nota, ogni sillaba risvegli una sofferenza indicibile, riapra antiche piaghe mai sanate, squaderni tutto il dolore del mondo. Alle prese con l’improbo ruolo di Gurnemanz, più sfocato appare John Relyea, sopraffatto da una dimensione narrativa che mette a dura prova un vibrato marcato, mentre si disimpegna efficacemente il monolitico Titurel di Alexei Tanovitski. Tra i ruoli di fianco merita almeno una menzione il Secondo cavaliere dell’imponente Dmitry Grigoriev.
Sul fronte femminile si impone la femminilità travolgente della Kundry di Catherine Hunold. È una notazione a tutta prima sorprendente, considerata una presenza scenica ingombrante: ma l’intelligenza dell’artista francese opportunamente prescinde dall’evidenziare l’aspetto demoniaco, folle, fatale del personaggio; sin dalla sortita, per contro, ne esalta una fragilità febbrile e inquieta, perfettamente in linea con un materiale vocale che, se non è dovizioso né torrenziale, per lo meno viene gestito in maniera assai accurata, con un’attenzione costante alla linea di canto, agli improvvisi trapassi di temperatura emotiva, a una ricerca di sfumature che è merce rara, tra le interpreti wagneriane. Il grande duetto del secondo atto, per questo, la vede protagonista di una conquista sofferta e impossibile, sublimata nell’accettazione del peccato e di uno stato di espiazione che si tramuterà in piena donazione di sé, nell’epilogo. Diventa così il contraltare umano, oltre che vocale, di un sestetto di Fanciulle fiore (Elisabetta Zizzo, Sofia Koberidze, Alena Sautier, Talia Or, Maria Radoeva, Stephanie Marshall) perfettamente amalgamato e omogeneo. Sullo sfondo, la ieratica imponenza della compagine corale, solidamente preparata da Ciro Visco, si contrappone alla sorgiva naturalezza delle voci bianche, istruite in maniera impeccabile da Salvatore Punturo.

A fare i conti con il passato era però, in misura maggiore e più evidente, soprattutto Graham Vick. E non solo o non tanto con un suo precedente allestimento parigino del 1997, una scatola bianca, mero spazio mentale, che nel corso delle riprese, fino alla primavera del 2003, si era arricchito anche della memorabile interpretazione di Plácido Domingo; ma soprattutto del suo Ring des Nibelungen palermitano, costruito a ridosso del bicentenario del 2013 e ultimato tre anni più tardi. Era stata, questa, l’occasione di ripensare la saga mitologica germanica quasi ‘dal basso’, assecondando l’innocenza dello sguardo di una nutrita schiera di mimi, pronti a farsi onde del Reno e fiamme purificatrici, risveglio della primavera e testimoni di nozze, portavoci di una platea continuamente interpellata e coinvolta tra quel cielo e quella terra che corrispondevano, qui e ora, alla sala del Teatro. Dirompente per forza creativa, quell’esperimento performativo – realizzato non senza l’indispensabile collaborazione di Ron Howell, ora nuovamente alle prese con i movimenti mimici – ha ritrovato solo in parte l’impatto originario: quasi che il tocco di Vick si sia disperso tra intuizioni folgoranti e lunghe pause meditative, francamente irrisolte.
Ritorna prepotente l’idea che l’intero Teatro sia cornice per lo spettacolo: grazie a un piancito inclinato che, dal fondo del palcoscenico, si estende fin sopra la fossa orchestrale, il più vicino possibile all’uditorio. È questa l’intuizione principale dell’impianto firmato da Timothy O’Brien: che si limita ad alcune tele – uno squarcio di cielo nel primo atto, un lussureggiante grappolo d’uva pop nel secondo, quindi nuovamente un cielo cinereo, solcato da calcinate ferite di guerra alla Anselm Kiefer nell’ultimo – per delimitare il fondo del Teatro; ma che immagina un velario per separare la scena dalla celebrazione del rito, candida iconostasi che preserva la celebrazione della liturgia dalla presenza dell’assemblea. L’azione è trasportata in un presente atemporale: di militari in guerra e di civili inselvatichiti come i rami di un albero secco che è diventato elemento topico delle produzioni di Vick (anche nel recente Don Giovanni romano), forse un riferimento beckettiano a una sterile attesa di salvezza. Il regista inglese dipana una lettura fortemente simbolica dell’opera, che si sforza di restituire i moventi di una riflessione talora farraginosa: le carezze al cigno ferito, per narrare la parabola ecologica, come l’icona di Maria Maddalena, legata al racconto di Kundry, sono forse tra i momenti più deboli – perché scontati – della messinscena. Ma in altri casi esplode la vena polemica dell’artista che scatena la forza del dramma: come nel finale del primo atto, quando l’associazione con la figura di Cristo muta Amfortas in un Ecce Homo dal costato ferito, carico di un vellutato manto scarlatto che si snoda sulla scena come una ferita purulenta; e la Comunione non è solo condivisione del sangue cavato dalla piaga ancora infetta, ma giuramento di sangue tra le truppe, terrificante memento di ben altre, moderne malattie contagiose, del corpo ma soprattutto dello spirito.
Non è originale ma fa riflettere, tanto il chador nero di Kundry, emarginata e reietta, quanto le irruzioni di questo drappello di soldati, dominato da un cieco senso di appartenenza alla (giusta?) causa: perché lasciano emergere tutta la potenza rivoluzionaria e non violenta di Parsifal, l’uomo qualunque che decide di farsi carico della sofferenza universale e di proclamare una religione che non divide, ma finalmente unisce. La sua presenza allontana la morte, tangibilmente presente con il cadavere di Titurel, violentemente rovesciato sulla scena; e soprattutto blocca l’inarrestabile processo di decomposizione, la lenta agonia di una società precocemente invecchiata, cui Parsifal contrappone un manipolo di bambini di tutte le razze, salvati dalla atrocità della guerra e sollecitati al dialogo. Dal passato deriva così non solo l’analisi del presente, ma anche una speranza per il futuro: nel segno di una purezza di spirito forse utopica, ma proprio per questo sinceramente, autenticamente commovente.

Teatro Massimo – Stagione di opere e balletti 2020
PARSIFAL
Dramma sacro in tre atti
Libretto e musica di Richard Wagner

Amfortas Tómas Tómasson
Titurel Alexei Tanovitski
Gurnemanz John Relyea
Parsifal Julian Hubbard
Klingsor Thomas Ghazeli
Kundry Catherine Hunold
Erster Gralsritter Adrian Dwyer
Zweiter Gralsritter Dmitry Grigoriev
Vier Knappen Elisabetta Zizzo, Sofia Koberidze, Ewandro Stenzowski, Nathan Haller
Klingsors Zaubermädchen Elisabetta Zizzo, Sofia Koberidze, Alena Sautier,
Talia Or, Maria Radoeva, Stephanie Marshall

Stimme aus der Höhe Stephanie Marshall

Orchestra, Coro e Coro di voci bianche del Teatro Massimo di Palermo
Direttore Omer Meir Wellber
Maestro del coro Ciro Visco
Maestro del coro di voci bianche Salvatore Punturo
Regia Graham Vick
Scene Timothy O’Brien
Costumi Mauro Tinti
Azioni mimiche Ron Howell
Luci Giuseppe Di Iorio
Nuovo allestimento in coproduzione con il Teatro Comunale di Bologna
Palermo, 31 gennaio 2020

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