Questa nuova incisione di Otello ha diversi motivi di interesse, ma trova ovviamente il suo polo d’attrazione in Jonas Kaufmann nel ruolo del titolo, che ha atteso la piena maturità vocale prima di avvicinarlo sulla scena e poi in sala d’incisione. Dopo averlo debuttato al Covent Garden di Londra nel 2017 (dello spettacolo esiste anche un dvd), ora il tenore tedesco, con il medesimo direttore, Antonio Pappano, lo registra in studio per la Sony con Orchestra e Coro della Accademia Nazionale di Santa Cecilia.
Banco di prova per tutti i tenori drammatici vicini a un modello vocale che si è nel tempo allontanato dall’esempio lasciato dal primo interprete assoluto, Francesco Tamagno, il Moro di Venezia lo si immagina ormai affidato, soprattutto dopo la leggendaria e credo ancora insuperata prestazione di Mario Del Monaco, a un tenore dal centro scuro e bronzeo, seppur capace di una declamazione dall’accento infuocato e vibrante.
Nell’analizzare la prova offerta da Kaufmann, si cominci da un presupposto, evitando di perdersi nel citare i tanti esempi passati che lo attestano. Prima e dopo Del Monaco, infatti, quasi tutti i tenori che si sono avvicinati a questa parte l’hanno fatto seguendo l’impronta del tenore centrale di stampo drammatico. Sia che si guardi alla tradizione esecutiva degli interpreti italiani (fra questi si ricordi soprattutto Carlo Cossutta, per il significativo numero di presenze sulle scene), russi, americani, sudamericani e tedeschi, a questi ultimi appartiene lo stesso Kaufmann, la strada percorsa è sempre stata questa. Talune eccezioni, che come si suole dire confermano la regola, ci sono state. Basti pensare al tenore dal timbro latino, caldo e appassionato alla Plácido Domingo, nel suo caso non prettamente drammatico e pertanto passibile di qualche fatica che non ne intacca il fascino e l’importanza avuta nell’interpretarlo costantemente sulle scene, al canadese Jon Vickers, Otello al quale sembrerebbe per alcuni aspetti guardare quello di Kaufmann, e all’americano Gregory Kunde che, almeno per ora, per quantità di recite, resta l’ultimo in ordine di tempo definibile storico, ma con un percorso vocale e interpretativo che, all’opposto degli esempi citati, risente dell’eredità belcantistica derivatagli dalla prima fase della sua carriera da tenore contraltino e da mezzi vocali timbricamente meno preziosi rispetto a quelli ravvisabili oggi in Kaufmann. Lo stesso Vickers può sembrare un modello al quale riferirsi per un eventuale raffronto di scelte espressive più che vocali, ma procedendo nell’ascolto di questa edizione ci si convince di come Kaufmann sia paragonabile nulla altro che a se stesso, alla sua visione originale del personaggio subito riflessa nelle scelte vocali.
Partiamo appunto dal personaggio. Otello è un condottiero, un generale della Armata Veneta che approda vittorioso e carico di gloria a Cipro dopo aver sconfitto il nemico musulmano. Diviene vittima del rancore e dell’odio dell’alfiere Jago, della sottile perfidia del suo raggiro che mira a scatenare in Otello una gelosia così insana da portarlo a perdere quasi il senno e a dubitare della sua amata Desdemona fino al punto di crederla infedele e, per questo, a umiliarla dinanzi a tutti e poi a punirla addirittura con la morte. Un femminicidio tanto assurdo, soprattutto se lo si valuta con gli strumenti della ragione, da far meditare sulla differenza stessa che intercorre fra il dramma shakespeariano e la riduzione a libretto che Arrigo Boito stende per dar modo al genio verdiano di costruire una musica e un dramma in cui forse le sottili trame psicologiche sono meno accentuate rispetto al testo teatrale del grande Bardo. L’interpretazione di Kaufmann ci piace pensarla in bilico fra due modi di vedere il personaggio. Da un lato si notano le sfumature che ne fanno un essere in balìa della sua debolezza, delle fragilità psicologiche, dei tormenti interiori che non si immaginerebbero possibili in un eroe, in un condottiero, tanto sicuro di sé sul campo di battaglia ma vacillante nel gestire gli affetti, colpito nell’orgoglio fino al punto da non essere in grado di distinguere il male dal bene, la fedeltà dalla infedeltà, annegando la verità in un sospetto che gli corrode la mente. Da subito, ascoltando come Kaufmann affronta scena dopo scena la parte, si comprende come il suo fin troppo educato Otello sia privo di reale eroismo e passione. L’accento non è mai veramente infuocato ed è inutile cercare nella sua declamazione, pur quanto ragguardevole essa sia, il vigore perentorio e la scolpitezza d’accenti di un Del Monaco (francamente ancora oggi ineguagliabile in pagine come “Esultate!”, “Abbasso le spade!”, “Ora e per sempre addio”, nelle impennate leonine di “Amore e gelosia vadan dispersi insieme!” e in frasi come “Nelle sue spire d’angue l’idra m’avvince! Ah! Sangue! Sangue! Sangue!” con quello che subito segue nel finale del secondo atto con “Sì, per ciel marmoreo giuro!”). Dietro il condottiero, in Kaufmann, non c’è neanche l’uomo appassionato, che si sente tradito dalla propria donna, bensì quello ingenuamente smarrito man mano che assiste al crollo delle sue sicurezze affettive. Bastano le poche frasi del duettino con Jago del secondo atto per instillare in lui lo spettro di un sospetto che vede Kaufmann già cedere allo smarrimento e a farlo uscire dal breve confronto debolmente impaurito, preso da un angoscioso sentimento di sconfitta dal quale non potrà più separarsi. Ecco perché il suo canto, sia ben inteso sempre solido ed efficace, cerca soluzioni espressive nuove da donare a una lettura di Otello che comunque entra a pieno diritto nella storia dell’interpretazione di questa parte leggendaria. Lo fa curando ogni frase con un sottile e ben ponderato gioco di cesello, cercando l’introspezione più che il vigore. È poetico e affettuoso nel duetto del primo atto con Desdemona, ma pur sempre un uomo che scopriamo via via più indifeso per effetto del sospetto, incapace di reagire, cerebralmente tormentato dal dubbio più che gagliardo nelle accensioni di ribelle furore. Lo specchio, si diceva poc’anzi, di quanto appena espresso, si ha anche sul versante vocale, dove la voce scura e brunita, dalle inflessioni talvolta velate e dai suoni un po’ foschi, si apre a preziosismi espressivi quasi liederistici (si ascolti il disperato anelito di dolcezza rimembrando il dono fatto a Desdemona quando intona la frase “È il fazzoletto ch’io le diedi, pegno primo d’amor”), con quell’utilizzo di mezzevoci che hanno il sapore del falsetto utilizzato per donare affranta disperazione psichica a “Dio! Mi potevi scagliare tutti i mali”, in cui il protagonista dichiara che avrebbe potuto affrontare ogni sorta di prova del Cielo tranne che supporre l’infedeltà della sua amata donna. Lo stesso avviene nel “Niun mi tema” finale, che raramente si era ascoltato così interiorizzato e raccolto in una dimensione emotiva trasognata, di disperata solitudine a seguito della presa di coscienza del proprio errore, così da donare al suo addio alla vita un sapore tanto straziante quanto poeticamente assorto in una delirante follia. C’è un qualcosa di estremamente stilizzato nelle scelte fatte da questo grande tenore per entrare a pieno diritto fra gli interpreti di riferimento, imponendosi, appunto, per un’originalità espressiva e vocale che lo elevano da ogni scontato schema già percorso, così da renderlo un Otello che, perdendo le sue certezze, appare profondamente umano e psicologicamente labile più che nevroticamente furente o passionalmente ferito.
“La lunga strada che porta a Otello” è anche il titolo del bel saggio firmato da Thomas Voigt, purtroppo non tradotto in italiano, che nel libretto di accompagnamento al cofanetto descrive pensieri e idee di Kaufmann stesso sulla sua visione del personaggio, a conferma parziale di quanto sopra esposto.
Si approda a una visione tanto profonda di Otello anche perché, come già avvenuto sulla scena a Londra, a Roma, in sala d’incisione, c’è un Antonio Pappano in stato di grazia, alla testa di Orchestra e Coro dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia. Colpisce, in ogni sua direzione d’opera, prima ancora che la cura per il dettaglio, la teatralità del discorso musicale, la capacità di essere analitico e profondo nel descrivere i tratti dei personaggi e le atmosfere di ogni scena. I quadri d’assieme sono magnifici, come la travolgente forza tellurica donata alla tempesta del primo atto, l’impeto nella conduzione del brindisi di Jago e della successiva sommossa, i guizzi orchestrali quasi ricamati del “Fuoco di gioia” e l’ampiezza di respiro donata al concertato della delegazione veneta. Ci sono poi l’incanto lunare estenuato del duetto d’amore del primo atto, il magnifico rilievo, di sapore quasi madrigalistico, donato all’omaggio floreale a Desdemona e la tensione del duetto fra Desdemona e Otello del terzo atto, in un crescendo di accusa da un lato e di incredulo smarrimento dall’altro che la sua bacchetta sa regalare con la complicità dei cantanti. Solo alcuni esempi, fra molti, per lodare una concertazione magistrale, dove l’orchestra sembra creare climi e atmosfere con timbri e colori sempre cangianti, in un arcobaleno di suoni di immediato impatto espressivo.
A trarre vantaggio da una lettura così analitica e raffinata è anche la Desdemona della giovane Federica Lombardi, soprano lirico che si affaccia al repertorio verdiano dopo essersi messa in luce in quello mozartiano, che le ha anche giovato un “Premio Abbiati” della Associazione Nazionale Critici Musicali. Il modello, sostenuto nel canto da una voce flessibile e di bell’impasto timbrico, sembrerebbe essere quello di una Desdemona non scontatamente virginea e delicata, ma il tempo e una maggiore consapevolezza futura del fraseggio verdiano, così come la presa di possesso del ruolo sulla scena, ci porterà a capire quale sviluppi futuri potrà avere in questo repertorio una voce che certamente possiede qualità degne di nota. Lo dimostra nella “Canzone del Salice” e in una “Ave Maria” delicatamente sfumata e assai ben cantata, ma prima, nel confronto con Otello del terzo atto appare emotivamente distaccata e in “A terra!…Sì…Nel livido fango” nel concertato della delegazione veneta le manca ancora la calda espansione lirica di un centro malioso, capace di irradiarsi in acuto con l’intensità richiesta.
Lo Jago del noto baritono spagnolo Carlos Álvarez si impone per la solidità del mezzo vocale e per lo stile sorvegliato; appare come un gentiluomo del raggiro più che un diabolico genio del male. Certo il fraseggio, per quanto pulito e sobrio, oltre che meditato, potrebbe apparire più insinuante, luciferino e, all’occorrenza, subdolo e sottile (sia nelle diaboliche elucubrazioni del “Credo” come nel canto a fior di labbro del “Sogno”), eppure la prova vocale è indubbiamente di valore altissimo.
Ruoli di contorno di grande lusso, con il Lodovico e il Montano pregevolissimi di Riccardo Fassi e Fabrizio Beggi, giovani bassi italiani che offrono una sicura garanzia di qualità, la limpida grazia del Cassio del tenore armeno Liparit Avetisyan e l’incisivo Roderigo del veterano Carlo Bosi. Completano il cast la valida Emilia di Virginie Verrez e Un araldo di Gian Paolo Fiocchi.
Una incisione di Otello che assume un posto di indubbia importanza nella discografia di quest’opera verdiana, anche per l’alto livello della registrazione.
OTELLO
Dramma lirico in quattro atti
Libretto di Arrigo Boito
Musica di Giuseppe Verdi
Otello Jonas Kaufmann
Desdemona Federica Lombardi
Jago Carlos Álvarez
Emilia Virginie Verrez
Cassio Liparit Avetisyan
Roderigo Carlo Bosi
Lodovico Riccardo Fassi
Montano Fabrizio Beggi
Un araldo Gian Paolo Fiocchi
Orchestra e Coro dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia
Direttore Antonio Pappano
Direttore del coro Ciro Visco
Etichetta: Sony
Formato: CD
Registrazione effettuata. dal 24 giugno al 6 luglio 2019,
all’Auditorium Parco della Musica, Roma