In un periodo di disorientante incertezza come questo, scrivere di musica e di una serata felice potrà sembrare anacronistico. In Italia i teatri sono praticamente tutti chiusi per i motivi ben noti, all’estero, invece, si attende lo sviluppo di eventi per i quali pare proprio che l’uomo non riesca a dare allo stato attuale risposte chiare e a porre rimedi risolutivi. Così, dopo aver varcato la frontiera senza alcun problema ma con un po’ di apprensione, si arriva in una Montecarlo che per ora prosegue senza intoppi la sua stagione lirica proponendo in forma di concerto, all’Auditorium Ranieri III, Il pirata di Bellini in prima esecuzione locale.
Jean-Louis Grinda, da illuminato direttore della gloriosa Opéra di Montecarlo, ha in questi ultimi anni mostrato grande attenzione a Vincenzo Bellini, proponendo in scena Norma con protagonista Cecilia Bartoli, mentre in concerto La sonnambula e I puritani, entrambi con Annick Massis e Celso Albelo. Ora tocca a Il pirata, opera simbolo di uno stile che si venne pienamente a codificare quando Bellini trionfò con essa nel 1827 al Teatro alla Scala, avvalendosi di un cast d’interpreti leggendari quali Henriette Méric-Lalande (Imogene), Giovanni Battista Rubini (Gualtiero) e Antonio Tamburini (Ernesto). In quella circostanza si posero le basi definitive per lo sviluppo del tenore romantico. Nell’animo di Gualtiero, il pirata che cerca di riunirsi invano all’amata Imogene, il legame con la quale è stato reso impossibile, troviamo l’incarnazione dell’eroe che si fa bandito per vendicare le offese subite; desidera, da esule, ritornare nella sua terra e rivalersi contro chi l’ha allontanato dalla Sicilia, per poi sperare di recuperare l’affetto dell’amata perduta, languente nell’attesa vana di un suo ritorno. Gualtiero diviene così uno dei tanti personaggi romantici idealizzati dal melodramma belliniano, dall’intensità dei loro amori e dall’ardore impetuoso delle loro passioni civili. L’azione de Il pirata ha luogo sulle coste siciliane del XII secolo, ma non è tanto l’ambiente che conta quanto l’involo romantico che caratterizza il ruolo del protagonista, avvolto in un velo di struggente malinconia e tenerezza attraverso il quale Bellini sostanzia i dolori dei due innamorati, separati ma idealmente uniti dal desiderio di ricongiungersi per poi vagare in quei mari che il libretto di Felice Romani spesso cita come elemento naturale di separazione e ricongiungimento. Ed ecco il mare in tempesta, che ci accoglie a inizio d’opera nella furia dei suoi elementi, e Gualtiero che lo sfida nelle sue azioni di pirateria, di costa in costa (“Nel furor delle tempeste, nelle stragi del pirata”, la sua aria di sortita), nella speranza di un approdo sereno che lo riporti al suo bene; quel mare di Sicilia che unisce gli amanti in un agognato riabbraccio (“Mille soffria tormenti, l’onde sfidava e i venti”, così nel duetto fra Gualtiero e Imogene del primo atto), o li proietta in un futuro di pace che purtroppo il destino non permetterà loro di realizzare (duetto secondo atto: “Vieni: cerchiam pe’ mari al nostro duol conforto, ah! mio ben, deh ! Vieni. Per noi tranquillo un porto l’immenso mare avrà”). Nelle melodie che Bellini affida ai due protagonisti, lunghe come le onde del mare, il compositore non conferma solo il suo stile, ma plasma delle vocalità capaci di trasmettere nel canto tutto questo e, avvalendosi degli interpreti sopra citati, crea dei feticci, dei prototipi vocali che sono riflesso di uno stile e di un sentire espressivo tanto difficile da cogliere se non si hanno interpreti capaci di farlo. A Gualtiero, nello specifico, Bellini chiede di essere non solo un eroe, coraggioso e intrepido, ma anche di cantare con quella paradisiaca dolcezza che sia specchio delle malinconie che nel canto vanno espresse con una linea vocale dolce e commossa, che si muove su tessiture ora centrali, ora acutissime e che, pertanto, richiedono l’utilizzo di suoni misti. Dinanzi a una vocalità tanto complessa e problematica (presa sotto gamba da tenori inconsapevoli di cosa sia affrontarla con stile, oppure avvicinata scendendo a diversi compromessi), ricordo personalmente un solo tenore che sia riuscito in tempi moderni a dare, almeno a chi scrive, l’impressione di avvicinarsi all’ideale belliniano: Rockwell Blake. Dopo di lui, se ci si rapporta all’oggi, si deve pensare a Michael Spyres, che ha tentato con buoni risultati l’impresa.
In attesa che anche John Osborn ne provi un approccio secondo quelle che sono le regole stilistiche richieste, a Montecarlo si è ascoltato Celso Albelo, che a suo modo riesce a portare in porto la parte e a risolverla, con gusto, equilibrio e grande impegno. Ma a essere sinceri il tenore delle Canarie non convince. Il timbro è bello, morbido e carezzevole nei centri, il legato tutto sommato ben controllato e le smorzature, quando cercate, anche persuasive. Il problema, che è poi quello da sempre insito in questa parte, si presenta quando i suoni andrebbero addolciti in acuto facendo ricorso a suoni misti, utili a comunicare la soave delicatezza dell’amore romantico attraverso l’elegia, la malinconia e il rimpianto. Qui Albelo non riesce a compiere il passo decisivo che lo renda stilisticamente pertinente alle necessità della scrittura belliniana e sceglie una via tutto sommato abbastanza scontata, ossia quella di cantare la parte come la tradizione novecentesca ci ha tramandato. Certo non si torna a quello che era il sentire dei tenori che hanno preceduto la belcanto renaissance, perché l’emissione è sorvegliata, ma al tempo stesso attraversata da una certa apprensione. Nulla di grave si intende, ma in frasi come “Cedo al destin orribile, che d’ogni ben mi priva” (una delle più struggenti dell’intera letteratura tenorile romantica), o nella grande aria del secondo atto, momenti estatici come “E parlerà la tomba alle pietose genti” restano non dico buttati via ma intonati senza quell’espressione estatica capace di trasmettere tutto il travaglio interiore dell’uomo che, perseguitato dal destino, diventa comunque eroe, archetipo di ideali di vita improntati sulla purezza dei sentimenti che sono bagaglio del sentire melodrammatico romantico. Si aggiunga che gli acuti, quasi sempre presi di forza da Albelo, ci sono più o meno tutti, spesso e volentieri anche sicuri, tranne qualche inevitabile ed opportuno taglio adottato onde evitare di metterlo in difficoltà, ma l’amaro in bocca alla fine resta, perché da lui ci saremmo aspettati una maggiore volontà di indagine sullo stile esecutivo antico dell’autentico tenore romantico invece che una corretta presa di possesso di un ruolo che gli sconsiglieremmo di mantenere in repertorio.
Al suo fianco spicca l’Imogene di Anna Pirozzi, al debutto nel ruolo. Nel suo caso si è dinanzi a una voce che, abituati come siamo a sentirla impegnata in parti come Abigaille, Lady Macbeth, Tosca e Turandot, per le quali è innegabile il raggiungimento di risultati ben noti a tutti, non avremmo creduto riuscisse a risolvere con tale sicurezza una parte come questa, che si è soliti definire da soprano drammatico di agilità. La voce, oltre che bella, è piena nei centri, voluminosa e solida, ma anche flessibile, mai afflitta, come spesso avviene in voci importanti come la sua, da un vibrato che ne comprometta quella che è la naturale luminosità lirica, evidente anche nel settore acuto. Ciò che sorprende nella Pirozzi è la capacità di legare i suoni e di modularli morbidamente nei diminuendi secondo segni d’espressione che rendono giustizia a una dimensione espressiva che nel dramma cerca non solo la componente declamatoria ma anche quello stato di follia che si impossessa mano a mano del personaggio, fino al noto finale; qui la Pirozzi giganteggia, prima nel lirismo dell’aria “Col sorriso d’innocenza”, davvero ben cantata, poi nell’impeto della cabaletta “Oh, Sole! ti vela”, trovando il giusto equilibrio fra le ragioni di una voce opulenta e i ripiegamenti di un canto non privo di ricercatezze e melismi tali da rendere pienamente attendibile la sua predisposizione al canto romantico, mai risolto in maniera verista perché sostanziato di quella consapevole estrazione belcantistica certo non estranea all’organizzazione vocale di un soprano che, non dimentichiamolo, ha dato bella prova di sé anche in Norma e Roberto Devereux e oggi conferma una natura e un forma vocale adattissime a proseguire su questo terreno la strada della sua già importante e affermata carriera.
Terzo elemento del cast è il baritono Vittorio Prato, giunto quasi all’ultimo a sostituire l’indisposto George Petean. La parte l’aveva già evidentemente pronta, dal momento che ha in previsione di affrontarla il prossimo giugno al Teatro Massimo di Palermo. Nel suo caso si è dinanzi a una voce di volume certo più contenuto rispetto a quella dei suoi colleghi. Per di più il ruolo di Ernesto, pensato per il leggendario Tamburini (al quale Prato ha recentemente dedicato un bellissimo cd di arie, su etichetta Illiria, intitolato “Il bravo”), è in questo caso quello del tipico baritono antagonista vilain, dal tono sprezzante, con pochi squarci melodici capaci di mettere in mostra il meglio della vocalità di Prato. Ciò premesso – ed è in questo che si ravvisa la bontà della sua prova – lo stile è irreprensibile. L’arioso di ingresso è cantato con gusto e la cabaletta eseguita con il da capo e tutte le variazioni del caso, così come l’espressività e l’eleganza del porgere non tardano a farsi strada nel duetto con Imogene del secondo atto. Eccellente anche l’apporto del restante cast, con il bravissimo Alessandro Spina, Goffredo di bella timbratura grave, il composto Reinaldo Macias, Itulbo, e la garbata Claudia Urru, Adele.
Alla direzione davvero ragguardevole di Giacomo Sagripanti si può solo imputare una certa libertà nei tagli apportati alla partitura, che sono tanti davvero, forse resi necessari per non mettere in difficoltà gli interpreti, soprattutto il tenore. Per il resto, alla testa di una Orchestra Philharmonique di Montecarlo in grande forma e di un Coro come sempre ineccepibilmente istruito da Stefano Visconti, ci si trova dinanzi, fin dalla Sinfonia, diretta con tempi stringenti e incalzante ritmicità, a una concertazione dalla sonorità ben calibrate e da un respiro che nelle grandi pagine melodiche va all’unisono con le voci, le sostiene e le valorizza sempre senza che si avverta alcun scollamento, appunto a favore di una cura espressiva attenta al dettato strumentale in funzione di quello vocale. Cosa non scontata in altri direttori che dirigono il repertorio della prima metà dell’Ottocento italiano e non sempre hanno, come invece ben possiede Sagripanti, il polso di quel clima romantico fatto di impeto e languore mirabilmente fusi con senso del teatro e bell’involo narrativo.
Successo festosissimo, con acclamazione finali per tutti, soprattutto per la Pirozzi. Prossima alzata di sipario, coronavirus permettendo, il 22 marzo, per Le Comte Ory di Rossini, con Cecilia Bartoli e il debutto di Maxim Mironov nei panni del protagonista.
Auditorium Ranieri III, Opéra di Montecarlo – Stagione 2019/20
IL PIRATA
Opera seria in due atti
Libretto di Felice Romani
Musica di Vincenzo Bellini
Gualtiero Celso Albelo
Imogene Anna Pirozzi
Ernesto Vittorio Prato
Itulbo Reinaldo Macias
Goffredo Alessandro Spina
Adele Claudia Urru
Orchestre Philharmonique de Montecarlo
Choeur de l’Opéra de Montecarlo
Direttore Giacomo Sagripanti
Maestro del coro Stefano Visconti
Studi musicali Kira Parfeevets
Auditorium Ranieri III – Salle Yakov Kreizberg di Montecarlo, 5 marzo 2020