Faceva quasi tenerezza sentir risuonare in un teatro semivuoto (il Teatro alla Scala poi!) le prime note del Preludio all’atto primo de La traviata, ovvero dell’opera forse più amata di Giuseppe Verdi, capolavoro indiscusso e indiscutibile. L’emergenza Covid costringe, infatti, i teatri italiani a ridimensionare pesantemente il pubblico presente, in osservanza delle indicazioni ministeriali. Perché mai sugli aerei, sui mezzi pubblici in generale, sia possibile ammassare persone spesso vocianti e in continuo movimento mentre in un teatro, dove il pubblico se ne sta zitto e composto per tutta la durata dello spettacolo, sia indispensabile un rigidissimo distanziamento resta un mistero. Tant’è, la musica dilagava fra i palchi semivuoti, la platea decimata, i velluti e gli stucchi abbandonati a loro stessi. Eppure la magia si è ripetuta.
Per Traviata, si sa, occorre soprattutto un soprano in grado di vivere e tradurre in canto le sofferenze e la malinconia esistenziale di Violetta. Se poi il soprano in questione è anche una bella donna, scenicamente credibile, il gioco è fatto. Martedì sera, alla Scala, l’incanto si è rinnovato, poiché Marina Rebeka, con la sua voce pulita, educata, senza alcuna forzatura per simulare una potenza vocale che non possiede (come capita spesso ad alcune incensatissime dive di oggi), è stata una Violetta plausibile, sofferente, a suo agio nelle agilità del primo atto (ottimo il brindisi e “Ah forse è lui”), così come nei languori del secondo (pateticissimo il suo “Dite alla giovine”) e, soprattutto, negli spasimi del terzo. Raramente capita di ascoltare un “Addio del passato”, eseguito integralmente con la ripresa solitamente tagliata, così calibrato nelle sonorità e negli accenti, sfumato e tutto giocato su un continuo trascolorare di suoni, pause e sospiri. Il fatto che l’opera fosse eseguita in forma di concerto ha consentito alla cantante lettone di concentrarsi sui chiaroscuri vocali piuttosto che sulla realizzazione scenica, trovandone sicuro giovamento.
La versione a cui abbiamo assistito, con orchestra e cantanti schierati sul palcoscenico vuoto (due poltrone e una chaise longue era tutto l’armamentario scenico), ha fatto raramente rimpiangere l’assenza di un vero e proprio allestimento scenico. Merito certamente del bel gioco luci e degli accuratissimi movimenti scenici curati da Lorenza Cantini, ma anche del fatto che non sempre La traviata ha trovato cantanti fisicamente così in parte nei propri ruoli. Anche il tenore brasiliano Atalla Ayan infatti, pur non possedendo uno squillo significativo, ha reso con credibile trasporto gli affanni del giovane e sventato Alfredo Germont. Il suo timbro affettuoso, quasi da tenore di grazia, si sposava benissimo con quello di Rebeka. Ovvio, quindi, che il loro amoroso “Parigi o cara” sia risultato uno dei momenti più emozionanti della serata. Su Leo Nucci, papà Germont, inutile ripetersi. Il grande baritono italiano, considerata l’età, declama più che cantare, ma lo fa con una scaltrezza che ha del diabolico, ed è pur sempre in grado di sfoggiare acuti sonori e perentori. Bravi tutti gli altri interpreti, che definire comprimari sarebbe riduttivo: Chiara Isotton, Flora, Francesca Pia Vitale, Annina, Carlo Bosi, Gastone, Costantino Finucci, Barone Douphol, Fabrizio Beggi, Marchese d’Obigny, Alessandro Spina, Dottor Grenvil, Bryan Avila Martinez, Giuseppe, Ernesto Panariello, Domestico di Flora/Commissionario.
Zubin Mehta ha diretto il capolavoro verdiano con infinito affetto e languore. Certo, vanamente cercheremmo nella sua esecuzione la frenesia “malata” che caratterizza le due feste in alcune storiche incisioni. Mehta dirige Traviata come fosse un sogno, un vago ricordo del tempo perduto e mai ritrovato. Tutto è visto come attraverso un velo che sfuma i contorni più netti ed esacerbati. L’illustre direttore indiano non incalza mai i cantati, li lascia liberi di respirare con agio. “Amami Alfredo” perde così la caratteristica di grido disperato e lancinante per trasformarsi in una implorazione persino languida e sensuale. Solo al terzo atto, quando la morte fa il suo ingresso in scena, la direzione di Mehta trova stacchi lugubri e nerissimi, come nella sublime “marcia funebre” che accompagna Violetta sul suo letto di morte. Spiace ora sottolineare come in una serata così riuscita l’unica stonatura siano stati gli “abiti”, per Violetta e Flora, creati da Dolce &Gabbana. Abiti di rara bruttezza, simili a meringhe mal decorate, al punto che quando è entrata in scena Annina con il suo bellissimo abito da sera nero (presumibilmente scelto dalla stessa cantante), le due protagoniste sono retrocesse a popolane travestite per il carnevale di Rio. Come sia possibile, poi, che Violetta vada alla festa in casa di Flora con lo stesso ridicolo vestito che indossava nel primo atto è tutto da spiegare. Il risultato è involontariamente comico e assolutamente antiteatrale.
Teatro alla Scala – Stagione autunno 2020
LA TRAVIATA
Melodramma in tre atti su libretto di Francesco Maria Piave
Musica di Giuseppe Verdi
Violetta Valery Marina Rebeka
Flora Bervoix Chiara Isotton
Annina Francesca Pia Vitale*
Alfredo Germont Atalla Ayan
Giorgio Germont Leo Nucci
Gastone Carlo Bosi
Barone Douphol Costantino Finucci
Marchese d’Obigny Fabrizio Beggi
Dottor Grenvil Alessandro Spina
Giuseppe Bryan Avila Martinez*
Domestico di Flora/Commissionario Ernesto Panariello
* Solisti dell’Accademia Teatro alla Scala
Orchestra e Coro del Teatro alla Scala
Direttore Zubin Mehta
Maestro del coro Bruno Casoni
Esecuzione in forma di concerto
Milano, 15 settembre 2020