Il trovatore opera da museo. Incastonata tra le innovazioni musicali e drammaturgiche di Rigoletto e la cruda denuncia sociale di Traviata, l’opera su libretto dell’(allora) autorevole Salvatore Cammarano guarda al passato. Lo fa nell’impostazione della trama, nel valore archetipico e atemporale dei personaggi, nel rispetto quasi didascalico delle convenzioni codificate sino a quel momento, che tuttavia vengono innervate dal potente soffio dell’ispirazione musicale verdiana, mai prima di allora così deflagrante. Sembra essere questo l’assunto da cui parte Alvis Hermanis per la sua regia del capolavoro in scena al Teatro alla Scala di Milano, nuova produzione in coproduzione con Salisburgo.
La truce vicenda dei due fratelli divisi dall’amore per la stessa donna e dal terribile segreto custodito dalla zingara trova così ambientazione nelle sale ampie e un po’ anonime di un moderno museo, le cui pareti mobili sono occupate da enormi riproduzioni di capolavori pittorici del Rinascimento italiano e fiammingo. Ferrando entra in scena come guida turistica, con tanto di bastone terminante in una bandierina italiana, e a un gruppo di svogliati turisti racconta l’antefatto indicando nei dipinti i protagonisti della storia: il Conte e Leonora, ad esempio, hanno le fattezze di due stupendi ritratti della famiglia Medici, opera di Bronzino, mentre Manrico è l’Agnolo Doni immortalato da Raffaello, ovvero un suonatore di liuto. Al calare della notte, i personaggi – che durante il giorno sono custodi del museo – si trasformano e abbandonano gli abiti contemporanei per indossare quelli medievali, le sale sono invase da zingari o armigeri e le pareti mobili svelano diverse prospettive. Sino a quando, nell’ultimo atto, la pinacoteca è in rovina, i dipinti sono stati distrutti o staccati dalle pareti, con rare immagini in bianco e nero proiettate sulla scena. L’idea del regista, affiancato nel suo lavoro da Gudrun Hartmann, non è certo peregrina e presenta interessanti potenzialità. Che tuttavia non vengono sviluppate: l’azione si muove sui binari di una prevedibile, convenzionale gestualità, alla quale si aggiunge anzi una certa staticità, soprattutto nella sezione del coro. Né servono a vivacizzare il ritmo narrativo i frequenti spostamenti delle pareti mobili o le proiezioni di dipinti che intervengono in alcuni momenti, curate da Ineta Sipunova. Il prevalere del colore rosso nelle scene, firmate da Hermanis insieme a Uta Gruber-Ballehr, e nei costumi, opera invece di Eva Dessecker, è un ulteriore elemento che conferisce quieta uniformità all’azione. Le luci, perfettibili, sono di Gleb Filshtinsky.
Le cose vanno meglio sul fronte musicale. Dal podio, Nicola Luisotti adotta tempi singolari, puntando molto sulla teatralità e velocizzando arie e cabalette. Preciso e sgranato nel ritmo, così importante per sostenere l’incedere melodico, il direttore cura in particolare le sonorità possenti di ottoni e legni, evidenziando anche il velluto degli archi. L’elasticità del fraseggio e la morbidezza negli accompagnamenti vanno a vantaggio di una certa flessuosità melodica, soprattutto nei cantabili. La versione eseguita, di fatto integrale (manca il “da capo” della seconda cabaletta di Leonora), è un compromesso tra le esigenze della filologia e quelle della tradizione: ad esempio, il protagonista, nel finale secondo atto, non canta l’assurda frase “son io dal ciel disceso o in ciel sei tu con me”, mentre nel terzo esegue la “pira” abbassata di tono per emettere più agevolmente due acuti non previsti in partitura.
Francesco Meli è un magnifico protagonista. Come già nell’Ernani dello scorso anno, il ritratto che il tenore genovese fa di Manrico è quello di un eroe byroniano, animato da un amore puro e ideale. La voce, nel bronzo scuro dei centri, nella saldezza degli acuti, nella giustezza dell’accento, nella suprema eleganza del fraseggio e delle sfumature, restituisce un personaggio irresistibile nella sua dolente, amorosa, tormentata umanità. Al suo fianco, Liudmyla Monastyrska vanta uno strumento importante per volume e consistenza timbrica, che piega a una interpretazione molto personale: sicura nei passaggi più scopertamente lirici, accusa una lieve difficoltà in quelli virtuosistici, ma la sua Leonora è una donna passionale e volitiva. Se nell’aria di esordio sconta una certa freddezza, in “D’amor sull’ali rosee” regala un canto cesellato e ricchissimo di sfumature. Violeta Urmana, qui in “incarnazione” mezzosopranile, è una Azucena pienamente convincente per bellezza di timbro, vellutato e omogeneo, e per una interpretazione incisiva e personalissima, senza mai essere sopra le righe. Accusa invece alcune difficoltà in acuto il Conte di Massimo Cavalletti, che canta con trasporto e convinta emozione in un ruolo che si capisce che ama. Ottimo il Ferrando di Riccardo Fassi, sia per la voce scura e ampia, che per l’efficacia scenica (lui sì che, nella sua giovanile fierezza, sembra uscito da un dipinto cinquecentesco). Bene hanno fatto gli altri: Noemi Muschetti (Ines), Taras Prysiazhniuk (Ruiz) e Giorgio Lomiseli (un vecchio zingaro), allievi dell’Accademia della Scala, nonché Hun Kim (un messo). Lodevole la prestazione del coro, istruito da Bruno Casoni.
Vivo il successo da parte del pubblico della seconda recita che, a inizio spettacolo, ha osservato un minuto di silenzio in memoria di Mirella Freni.
Teatro alla Scala – Stagione d’opera e balletto 2019/20
IL TROVATORE
Dramma in quattro atti
Libretto di Salvatore Cammarano
Musica di Giuseppe Verdi
Il conte di Luna Massimo Cavalletti
Leonora Liudmyla Monastyrska
Azucena Violeta Urmana
Manrico Francesco Meli
Ferrando Riccardo Fassi
Ines Noemi Muschetti*
Ruiz Taras Prysiazhniuk*
Zingaro Giorgi Lomiseli*
Messo Hun Kim
*Solisti dell’Accademia Teatro alla Scala
Orchestra e coro del Teatro alla Scala
Direttore Nicola Luisotti
Maestro del coro Bruno Casoni
Regia Alvis Hermanis
Collaboratore del regista Gudrun Hartmann
Regista collaboratore Lorenza Cantini
Scene Alvis Hermanis e Uta Gruber-Ballehr
Costumi Eva Dessecker
Luci Gleb Filshtinsky
Video Ineta Sipunova
Nuova produzione Teatro alla Scala in coproduzione con Salzburger Festpiele
Milano, 9 febbraio 2020