Infine anche l’Aida “del baule” ha visto la luce. Com’è noto, per l’esecuzione del capolavoro di Giuseppe Verdi in forma di concerto al Teatro alla Scala, Riccardo Chailly ha voluto ripristinare l’originario inizio del terzo atto, consistente in circa sette minuti di musica, mai eseguito prima d’ora poiché lo stesso compositore, alcuni mesi avanti alla prima rappresentazione assoluta dell’opera, decise di sostituirlo non trovando questa scena “abbastanza caratteristica”. Volontà espressa a chiare lettere da Verdi e che non sarà certo il caso di contraddire in futuro, anche se la curiosità per questi primi “abbozzi”, ritrovati in un baule conservato nella Villa di Sant’Agata insieme ad altre carte (per le quali il compositore espresse il desiderio che venissero “abbruciate”) era molto forte. Lodevole, dunque, la scelta del Teatro alla Scala di presentarle finalmente al pubblico. Il coro originario, in stile palestriniano, pensato per i sacerdoti è infatti bellissimo. Non a caso Verdi lo riutilizzerà all’inizio della Messa da Requiem per il passaggio “Te decet hymnus”. Ma la scelta di questa prima stesura ha come effetto collaterale quello di veder sparire la bellissima Introduzione che evoca il luccicare delle acque del Nilo sotto la luce lunare (“Quei melanconici sussurri musicali”, come scrisse il librettista dell’opera Antonio Ghislanzoni) e la sublime (e di difficilissima esecuzione) Romanza di Aida “O cieli azzurri”. Pagine, queste, capaci di evocare e reinventare tutto l’esotismo musicale che innervava, più o meno palesemente, tanta musica operistica dell’epoca. Verdi, insomma, da quel grande uomo di teatro qual era, non sbagliava un colpo e le sue scelte vanno rispettate.
Un rito crudele e opprimente, rigidamente organizzato in cerimoniali sontuosi, viene tratteggiato con mano sicura da Riccardo Chailly, fautore di questa fastosa (nonostante l’esecuzione sia in forma di concerto) interpretazione dell’opera verdiana. Il mastodontico finale che chiude il secondo atto ha tratti monumentali grandiosi, non disgiunti da eleganze strumentali quasi cameristiche. Di eccezionale virtuosismo anche l’esecuzione dei ballabili. Poterli dirigere svincolati da ogni necessità di accompagnare le movenze dei ballerini ha consentito una esecuzione spettacolare. Mai è parsa così bella la musica per balletto di Aida, talmente bella da far rosicare di invidia anche il miglior Čajkovskij! Quello che sembra mancare, a tratti, nella visione di Chailly è la dimensione sensuale e voluttuosa, pur ben presente nella partitura. In questo ha avuto grande peso la scelta della protagonista.
Saioa Hernández, infatti, è sicuramente una Aida di stirpe regale, fiera e altera (non a caso il suo momento migliore è il feroce duetto con Amneris), ma palesemente in difficoltà quando deve tratteggiare il lato malinconico e lunare della protagonista. Ce ne avvediamo in quella che è una vera e propria scena di seduzione: “Là..tra foreste vergini di fiori profumate” è infatti cantato senza languore e abbandono, con una certa difficoltà nel manovrare i piani. Problema, quest’ultimo, che si ripete poi nel sublime duetto finale dell’opera, dove ogni tentativo di smorzare e alleggerire è inquinato da un “vibrato stretto” poco piacevole.
Facile preconizzare come, in una rappresentazione in forma scenica, la vera trionfatrice femminile sarebbe stata Anita Rachvelishvili nel ruolo di Amneris. La cantante georgiana è una vera leonessa. Dominatrice e appassionata, affronta i sacerdoti nella “scena del giudizio” con impressionante audacia e senza tentennamenti, supera la massa orchestrale con agio e sfoggiando un sonoro registro grave fin troppo esibito. La sua Amneris è fraseggiata con grande espressività, è perfettamente in parte e “vive” il personaggio. Suo degno compagno è Francesco Meli nel ruolo di Radamès. Come spesso gli capita, Meli a volte è incapace di differenziare i falsetti dalle autentiche mezzevoci (“Celeste Aida”), ma è bravissimo nell’accentare la parola verdiana con proprietà e sensibilità (“La fatal pietra sovra me si chiuse”). Emozionante il suo “Morir si pura e bella”, cantato con tale pathos e malinconia da commuovere.
Nobilissimo l’Amonasro di Amartuvshin Enkhbat, debuttante alla Scala. Ben cantato, con suoni levigati e senza forzature, ma ben poco espressivo e per ora non in grado di accentare con la dovuta sagacia le parole del libretto. Il suo Amonasro appare così fin troppo mite e amorevole nei confronti di Aida. I due bassi, Roberto Tagliavini (il Re) e, soprattutto, Jongmin Park (Ramfis, bellissimo il suo “Nume, custode e vindice”) danno il giusto risalto ai loro brevi ma fondamentali interventi, così come la Sacerdotessa di Chiara Isotton e il Messaggero di Francesco Pittari. Eccellente come sempre il coro preparato da Bruno Casoni.
Il poco pubblico presente in sala (il Covid!) ha applaudito con grande calore tutti gli interpreti.
Teatro alla Scala – Stagione autunno 2020
AIDA
Opera in quattro atti
Libretto di Antonio Ghislanzoni
Musica di Giuseppe Verdi
Il Re Roberto Tagliavini
Amneris Anita Rachvelishvili
Aida Saioa Hernández
Radamès Francesco Meli
Ramfis Jongmin Park
Amonasro Amartuvshin Enkhbat
Sacerdotessa Chiara Isotton
Messaggero Francesco Pittari
Orchestra e Coro del Teatro alla Scala
Direttore Riccardo Chailly
Maestro del coro Bruno Casoni
Esecuzione in forma di concerto
Milano, 6 ottobre 2020