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Milano, Teatro alla Scala – A riveder le stelle

Per il suo alternativo e anomalo 7 dicembre 2020, il Teatro alla Scala non ha osato molto sotto il profilo musicale. Se consideriamo i brani operistici selezionati, ha impaginato un programma che potremmo definire nazional-popolare nell’accezione “baudiana” più che gramsciana del temine, e che copre all’incirca un secolo di teatro musicale: da Rossini ai veristi, con l’assenza inspiegabile di Bellini, ma allargando in compenso il ventaglio a compositori francesi come Massenet e Bizet (il previsto Wagner è stato invece cassato all’ultim’ora per esigenze televisive). Il tutto cucito in un percorso non originale ma pertinente e di buon auspicio, considerati i tempi che viviamo, che allude a un viaggio dalle tenebre alla luce, come sintetizzato dal suggestivo titolo dantesco della serata “…a rivedere le stelle”. Si va così dal cupo preludio in do minore di Rigoletto, l’opera più nichilista dell’Ottocento melodrammatico italiano (e non solo), fino al catartico do maggiore del sublime e liberatorio finale del Guglielmo Tell di Rossini.

Sul piano esecutivo, si ascolta una serie di interpretazioni pregevoli, alcune meno riuscite di altre, come è logico che sia, considerato che alcune “stelle” della lirica coinvolte non sono più all’apice della carriera e che quasi tutte hanno registrato in fretta i loro contributi tra un aereo e l’altro, spesso conciliandoli con altri impegni di lavoro o problemi di spostamento da altri Paesi. Quasi nulla, di fatto, va in onda in diretta, a parte forse i siparietti di Milly Carlucci e Bruno Vespa (a proposito di nazional-popolare), che per fortuna si limitano a introdurre e a concludere la serata.
A fare la differenza, a trasfigurare in parte quello che sulla carta poteva essere una semplice e scontata compilation di arie celebri, è la confezione approntata da Davide Livermore, che ha una dimestichezza con il linguaggio televisivo tale da rendere non di rado i suoi spettacoli (penso alla Tosca inaugurale della scorsa stagione) più godibili in tv che in teatro. Il regista concepisce una sorta di film musicale della durata di circa tre ore in cui si mescolano opera, danza e recitazione, raggruppando i brani per tematiche che hanno come punto di riferimento, fra gli altri, testi letterari di Hugo, Montale, Pavese, scritti di Verdi, Gramsci, Bergman, ma anche versi di una canzone di Sting, recitati da attori di prosa. Si toccano così temi quali il potere e la critica al potere, il ruolo della donna nella società, le figure degli eroi e dei deboli, la speranza di rinascita. Un percorso culturale che intende evidenziare la capacità del teatro d’opera di dialogare puntualmente con le altre arti, con le passioni, le idee, i cambiamenti sociali.

I brani vengono messi in scena seguendo piani narrativi diversi a seconda delle situazioni e dell’atmosfera evocata dalle arie. Per l’occasione, Livermore recupera parti di scenografie di recenti allestimenti scaligeri: i treni del Tamerlano, gli angeli di Tosca, l’entrata di Cinecittà del Don Pasquale, le pedane nell’acqua grigio-nera di Kat’a Kabanova. Fa inoltre ricorso a proiezioni e alla “realtà aumentata”, sovrapponendo montaggio cinematografico a montaggio teatrale. I momenti di grande presa e suggestione sono molti, anche se non mancano soluzioni visivamente meno riuscite, come le piume svolazzanti durante “La donna è mobile”, o i corvi appollaiati nelle arie del Ballo in maschera. Tutto sommato le cose migliori si vedono nell’ultima parte, quando la scena si fa più semplice, pulita e, senza il ricorso a riusi scenografici e presenze invadenti di mimi, i cantanti si esibiscono da soli con belle proiezioni alle spalle: una veduta di Roma per Tosca, le nebulose e le galassie che accompagnano “Nessun dorma”, o l’emozionante, commovente finale del Guglielmo Tell con le vedute aeree notturne di Milano. Eccessivo risulta lo spazio dato alla prosa (si distinguono comunque bravi attori come Massimo Popolizio, Caterina Murino, Laura Marinoni, Sax Nicosia, Giancarlo Judica Cordiglia), e inutile il pippone politicamente corretto e mainstream di Michela Murgia con le amenità su Tosca anticipatrice del #metoo. Piacevoli viceversa gli spazi dedicati alla danza, dove si impongono i primi ballerini della Scala e il sempre carismatico Roberto Bolle che “duetta” con un laser su musica di Satie. Con qualche taglio opportuno, magari, si sarebbe potuto salvare il duetto wagneriano dalla Walküre. Resta il fatto che, al di là degli appunti e delle riserve che si possono fare, siamo di fronte a una operazione complessivamente riuscita, notevole per lo spiegamento di mezzi e lo sforzo produttivo, ma anche per lo stile, la cifra spesso raffinata, la forza e l’impatto visivo, senz’altro all’altezza della fama e del prestigio della Scala.

Lo stesso discorso vale per il livello delle esibizioni vocali. Le polemiche alimentate dai social sulla scarsa presenza di cantanti italiani sono del tutto fuori luogo. A parte il fatto che, se proprio vogliamo guardare alle nazionalità, la pattuglia italiana è la più nutrita, la Scala è un teatro internazionale e la selezione dei cast è giusto che rifletta questa sua dimensione. Non si capisce perché non dovrebbero cantarci una Rekeba, un Tézier, un Abdrazakov. Ciò detto, in questa serata il livello delle voci femminili risulta mediamente superiore. Spiccano in particolare l’eccellente Marina Rebeka, ineccepibile vocalmente e sensibile interprete di “Un bel sì vedremo”, Sonia Yoncheva che infonde il suo bel timbro vellutato e un fraseggio partecipe a “La mamma morta” (peccato qualche oscillazione in acuto). Sempre autorevole Elīna Garanča, nonostante alcune  discontinuità di emissione (nella Cavalleria a Napoli era decisamente più in forma) e convincente la Carmen di Marianne Crebassa, non sensualissima nel timbro ma omogenea nella linea di canto. Lisette Oropesa, che avrebbe dovuto cantare nella Lucia poi cancellata per il Covid, interpreta “Regnava nel silenzio”: è accurata nel fraseggio, fluida nell’emissione e nelle agilità, un po’ stridula negli estremi acuti. Brava, ma non una fuoriclasse. Si fanno onore anche le voci italiane: Eleonora Buratto imprime timbro ambrato e adeguato temperamento drammatico all’aria di Amelia dal Ballo in maschera, mentre Rosa Feola sfoggia un timbro altrettanto bello, pulizia di emissione e verve nell’aria di Norina da Don Pasquale. Figura bene anche Aleksandra Kurzak, che offre una versione sentita e adeguatamente levigata dell’aria di Liù “Signore ascolta”. Emerge invece più per l’immedesimazione drammatica che per la vocalità Kristine Opolais, interprete di “Tu, tu, piccolo Iddio” da Madama Butterfly.

Tra gli interpreti maschili, la prova più intensa è quella di Ildar Abdrazakov in “Ella giammai m’amò”, un Filippo II ben tornito nella vocalità, incisivo nella declamazione, scavato nel fraseggio. Nella grande scena della morte di Rodrigo da Don Carlo, si fa valere anche Ludovic Tézier, non memorabile come in altre occasioni, ma comunque nobile nel porgere la frase, pastoso nel timbro e morbido nell’emissione. Solido come sempre Luca Salsi nell’invettiva di Rigoletto “Cortigiani, vil razza dannata”, affrontata con domino della “parola scenica” e buona tenuta vocale. Di sorprendente impatto drammatico il “Credo” di Jago interpretato da Carlos Álvarez, incisivo nella vocalità e capace di rendere al meglio le insinuanti doppiezze del personaggio, mentre George Petean canta “Eri tu” dal Ballo in maschera con buona vocalità, ma fraseggio e accento da approfondire. A questo punto, tra i baritoni bisognerebbe includere Plácido Domingo, che tuttavia nell’aria “Nemico della patria” da Andrea Chénier esibisce, oltre a qualche affaticamento, una voce che con il registro baritonale e i requisiti richiesti dal personaggio di Gérard non ha nulla a che vedere. Ma Domingo, si sa, è ormai al di là del bene e del male, e per i suoi ancora numerosi fan è una sorta di monumento intoccabile.
Fra i tenori, spicca Benjamin Bernheim che cesella un “Pourquoi me réveiller” dal Werther ineccepibile nella fonazione, perfettamente controllato nello stile, sfumato ed espressivo nel fraseggio. Poi c’è Juan Diego Flórez: naturalmente canta benissimo, con tutti i suoni a posto e l’espressione giusta “Una furtiva lagrima” dall’Elisir, ma avremmo preferito ascoltarlo in un’aria che ne valorizzasse le qualità di virtuoso fuoriclasse. Piotr Beczala si conferma un cantante solido, non sempre omogeneo nell’emissione (tende ogni tanto ad aprire i suoni nella salita agli acuti) ma canta e fraseggia da professionista: esegue con una linea di canto sufficientemente sfumata l’Aria del fiore dalla Carmen, e non sfigura nel “Nessun dorma” dove tuttavia si rimpiange, se non altro per una questione di carisma scenico, la presenza di Jonas Kaufmann. Non al meglio vocalmente Francesco Meli, che nondimeno grazie al bel timbro, alla chiarezza della dizione e all’espressione carezzevole riesce a far vibrare la corda amorosa dell’aria di Riccardo “Ma se m’è forza perderti” da un Ballo in maschera. Vittorio Grigolo canta quindi con la comunicativa e la vivacità espressiva di sempre una “Donna è mobile” vocalmente non più che decorosa, mentre il grande Roberto Alagna affronta l’addio alla vita di Cavaradossi con sprazzi di fraseggio drammaticamente efficaci, ma anche con una voce che – almeno in questa occasione – non trasmette la solarità e il calore timbrico degli anni d’oro.

Infine, l’orchestra. Con 91 musicisti distanziati, occupa oltre mezza platea ed è disposta su una grande piattaforma. Dal podio Riccardo Chailly guarda verso il palco reale, mentre i cantanti si esibiscono alle sue spalle. Il coro diretto da Bruno Casoni e utilizzato solo per due brani (gli interventi nel “Nessun dorma” e il finale del Guglielmo Tell) è a ranghi ridotti: 24 maestri in tutto collocati nei palchi. Disposizione acusticamente disagevole per l’ascolto in teatro, ma essendo lo spettacolo pensato per la televisione, il suono – pur con i noti limiti dei fonici Rai – risulta ben bilanciato. L’ottimo Chailly dirige benissimo Puccini, bene Verdi e tutto il resto. Molto bravo Michele Gamba nella conduzione dei ballabili della Verdi Suite e dell’Adagio dal Grand pas de deux dallo Schiaccianoci di Čajkovskij.
Da ricordare, infine, la voce più bella, rotonda e morbida di tutte: quella della grande Mirella Freni, di cui si ascolta in apertura e chiusura di serata l’incisione di “Io son l’umile ancella” da Adriana Lecouvreur. [Rating:3.5/5]

Qui il link per rivedere la serata: RaiPlay