Era il 2017 quando la Royal Opera House di Londra decideva di voltare pagina e rimuovere dal suo repertorio, dopo oltre quarant’anni dalla sua prima rappresentazione nel 1974, il fortunatissimo allestimento firmato da John Copley de La bohéme, senza dubbio il più longevo della storia del teatro londinese (solo La bohème di Franco Zeffirelli, ancora in attività dal 1963, può vantare una storia più duratura). Come sostituzione, la ROH propose una nuova produzione di Richard Jones, ora giunta alla sua seconda ripresa, sotto la supervisione di Julia Burbach. Sicuramente è difficile pensare che le fortune di questo spettacolo dureranno per quarant’anni come il suo predecessore ma, per il momento, la produzione continua a incontrare i favori del pubblico. Al successo di questa ripresa contribuiscono soprattutto un cast molto ben assortito e un’esecuzione musicale attenta.
Se al momento della suddetta sostituzione, qualcuno temeva un salto nel buio e una eccessiva rivoluzione d’impostazione, tutti i dubbi sono stati subito fugati, dal momento che l’allestimento di Jones rimane fondamentalmente tradizionale e non rivoluzionario, seppur con un diverso tipo di realismo, più incline al gusto moderno per la stilizzazione. Jones infonde humour e freschezza alla vicenda, ma lascia anche spazio a incoerenze, poco sviluppo nei rapporti tra i personaggi o qualche eccessiva caratterizzazione. Non si capisce esattamente se la povertà dei bohémien sia vera o presunta e che tipo di rapporto si sviluppi tra Rodolfo e Mimì, o tra Marcello e Musetta. Quest’ultima è rappresentata come una cantante d’opera vagamente isterica e disinibita al punto di sfilarsi la biancheria mentre cammina sui tavoli del Caffè Momus. Le scene di Stewart Laing sono prevalentemente incentrate su un uso minimale degli spazi scenici. Nel primo e quarto quadro, l’azione si svolge in un’angusta mansarda grigio/ocra con grosse travi di legno e praticamente senza alcun mobilio, a parte una seggiola e una minuscola stufetta: risulta difficile credere che si possa vivere in tale spazio senza neanche un letto e ancora più difficile accettare che una malata di tisi venga lasciata morire sul pavimento appoggiata a un semplice cuscino (mentre sullo sfondo dominano i graffiti stilizzati di donne, disegnati dai protagonisti durante le danze goliardiche del quarto atto). Gli amanti delle belle scene e dei colpi d’occhio possono comunque trovare conforto nel secondo quadro, laddove l’ambientazione si sposta in una Parigi tardo-ottocentesca fatta di gallerie coperte, fitte di negozi e lampioni. L’effetto prospettico delle scene e il dinamismo anche un po’ caotico dovuto al brulicare di gente che va e viene è molto ben fatto. Le gallerie lasciano poi spazio al Caffè Momus, presentato come un elegante ristorante borghese dalle pareti rosa e soffitti stuccati invece che un popolano e pittoresco caffè del Quartiere Latino. Spazi ampi e desolati dominano il terzo, laddove il palcoscenico è lasciato libero nella sua profondità: al centro solo una casetta con i murales dipinti da Marcello e intorno una distesa di neve. Qui prevale l’oscurità rotta solo da un fuocherello in un barile di latta, mentre nel primo e quarto quadro dominano le luci bianche abbaglianti di Mimi Jordan Sherin che finiscono per smorzare il romanticismo e l’intimità dei momenti più drammatici, creando un effetto asettico e moderno che ha poco a che fare con una soffitta parigina. Stewart Laing firma anche i bei costumi ottocenteschi nel complesso fedeli e dalla buona varietà cromatica (con tinte di rosso e giallo per Musetta). Per ultimo, va detto che la scelta di effettuare cambi scena a sipario aperto va a discapito della poeticità e della sorpresa, rendendo lo spettacolo un po’ più arido.
Dal podio Emmanuel Villaume si distingue per una conduzione attenta che predilige compattezza, effetti coloristici, briosità alternata a lirismo, mentre i momenti drammatici o d’impatto non risultano mai pesanti all’ascolto. Gli interventi solistici di flauto, clarinetto e oboe si incastrano con precisione, mentre il gruppo degli archi rende con efficacia grazie a pizzicati smorzati, gli effetti atmosferici della nevicata in corso. Nel primo quadro invece, la scelta di tempi dilatati per le tre arie principali ha creato qualche sbilanciamento qua e là con i cantanti.
Nei panni di Mimí troviamo Sonya Yoncheva, ritornata in palcoscenico dopo una bronchite che l’ha costretta a cancellare la prima. La performance vocale del soprano bulgaro è in crescendo, con una partenza sottotono nel primo quadro (“Sì, mi chiamano Mimí” risulta un po’ piatta), ma una crescita vera e propria nel terzo, dove sia “Donde lieta uscì” che i vari momenti d’insieme sono ben eseguiti. Il soprano bulgaro si distingue per purezza ed eleganza espositiva e buona gamma di dinamiche. La voce è emessa con naturalezza senza forzature e la dizione è chiara. Va detto tuttavia che sugli acuti lunghi si nota un vibrato largo che risulta, alla lunga, poco piacevole all’ascolto. Nonostante la produzione non brilli per pathos, Yoncheva regala una scena finale molto sentita e credibile dove suoni ben sostenuti si svuotano progressivamente fino a un declamato efficacissimo che conduce al sospiro finale.
Charles Castronovo è un ottimo Rodolfo che si distingue per tenuta, eleganza del fraseggio e bel timbro brunito. Nel complesso tiene testa alle difficoltà del ruolo senza dare cenni di stanchezza e mantenendo una freschezza vocale anche a tessiture alte. Talvolta sarebbe auspicabile un maggior trasporto e scorrevolezza musicale, soprattutto nelle arie del primo quadro, ma qui pesa anche la scelta di tempi dilatati nella conduzione.
Al suo debutto al Covent Garden, Aida Garifullina è forse la sorpresa più piacevole della serata. La sua è una Musetta civettuola, stravagante e irresistibilmente affascinante e volitiva. Vocalmente, Garifullina di distingue per luminosità e chiarezza del timbro accompagnate da un buon volume e proiezione con acuti sonori e ben sostenuti che ben sovrastano gruppi d’insieme e orchestra. L’aria del secondo quadro “Quando me n’ vo” viene eseguita con gusto e musicalità, seppur con qualche durezza nella dizione. La preghiera del quarto atto viene invece affrontata con delicatezza e sensibilità.
Andrzej Filończyk fornisce buon supporto come Marcello senza mai essere sopra le righe. La voce è limpida e omogenea anche se il volume non è sempre sufficiente a tenere testa all’orchestra. Gyula Nagy è uno Schaunard scanzonato e un po’ macchietta ma vocalmente solido. Peter Kellner si mette in evidenza per una voce di bella grana e regala un’ottima interpretazione dell’aria “Vecchia zimarra”. Tra i ruoli di supporto, Jeremy White è un Benoît spassoso e teatrale da basso buffo. Il coro della Royal Opera House, diretto dal maestro William Spaulding, interviene con precisione ritmica e compattezza mentre la selezione di voci bianche fornisce un irresistibile supporto alla riuscita della scena iniziale del secondo atto.
Al termine applausi festanti per tutto il cast con picchi di entusiasmo per Yoncheva, Castronovo e Garifullina. Un cast giovane e di talento, unito a una conduzione mai pesante, hanno compensato alcune pecche registiche di uno spettacolo a tratti asettico e incoerente, ma con momenti di alta suggestione.
Royal Opera House – Stagione d’Opera 2019/20
LA BOHÈME
Opera in quattro quadri
Libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica
Musica di Giacomo Puccini
Mimì Sonya Yoncheva
Rodolfo Charles Castronovo
Musetta Aida Garifullina
Marcello Andrzej Filończyk
Schaunard Gyula Nagy
Colline Peter Kellner
Alcindoro Eddie Wade
Benoît Jeremy White
Parpignol Andrew Macnair
Sergente dei doganieri Thomas Barnard
Un doganiere John Morrissey
Orchestra e Coro della Royal Opera House
Coro di voci bianche della Royal Opera House
Direttore Emmanuel Villaume
Maestro del coro William Spaulding
Regia Richard Jones, ripresa da Julia Burbach
Scene e costumi Stewart Laing
Luci Mimi Jordan Sherin
Movement director Sarah Fahie ripresa a cura di Danielle Urbas
Produzione della Royal Opera House
Londra, 17 gennaio 2020