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L’Aida scaligera di Zeffirelli su Rai5. Dirige Chailly, cantano Urmana e Alagna

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Vero protagonista e trionfatore dell’Aida inaugurale della stagione scaligera 2006/07, in onda mercoledì 27 maggio su Rai5 alle ore 21.15, Franco Zeffirelli conferma anche in questa produzione i suoi codici espressivi e la sua peculiare cifra stilistica, il senso di deferenza verso la tradizione e l’intenzione di non profanare un melodramma per adattarlo alle mode della contemporaneità.

Quintessenza della tradizione scenico-registica all’italiana, Zeffirelli punta allo stupore dei melomani riconsegnando il capolavoro verdiano alla sua più tipica dimensione grandoperistica. Si prodiga in un dispendio di ori, incensi, costumi, stendardi, bassorilievi, statue e divinità volanti che riprendono i barocchismi delle sue messinscene più tipiche. Con una variante: tutto l’armamentario egizio viene visto nell’ottica di un sogno. L’uso di materiali traslucidi e avveniristici fa sì che spazio e luce siano gli aspetti emergenti dello spettacolo. Aida, melodramma a due facce che alterna il fragore del trionfo a melodie esotiche e rarefatte, assume così un’impronta onirica, diventa l’evocazione di una memoria. Certo, la tendenza all’accumulo è a tratti eccessiva e sconfina in un gusto figurativo da kolossal cinematografico anni ’50. La cifra faraonica, poi, condiziona nel bene e nel male la lettura drammaturgica penalizzando la regia proprio nella scena del trionfo, stipata all’inverosimile e risolta in generici movimenti geometrici. Tuttavia, quanto si vede è sempre in sintonia con i colori e le atmosfere evocati dalla musica. E quando l’opera si fa intimista e vengono in primo piano i confronti personali e passionali fra i personaggi, la regia e i raffinati giochi di luce si rivelano esemplari, suggestivi. L’ultima scena, con la cripta che emerge gradualmente dalle viscere del palcoscenico, è magnifica.

Di pregio la cornice orchestrale. Riccardo Chailly dirige con serrato passo teatrale e senso della continuità narrativa. La sua lettura sprigiona energia, vigore, ed esalta – senza eccessi pompieristici – la componente drammatica e la dimensione cerimoniale. È elegante e virtuosistica nei ballabili (dove si fanno acclamare Roberto Bolle e Myrna Kamara) e dà quanto dovuto pure alle pagine liriche, anche se ci si attenderebbe un maggiore approfondimento delle atmosfere esotiche e misteriose. Ma è soprattutto nel rapporto con le voci che il direttore non riesce a imporre il suo marchio. La liricizzazione del fraseggio, l’introspezione psicologica nelle arie e nel finale non vanno a segno perché mancano interpreti veramente all’altezza dei personaggi.

La protagonista, Violeta Urmana, canta con buona tenuta tecnica, ma è poco emotiva e delinea genericamente il senso delle frasi. Non ha mai un abbandono sentito, o un accento toccante. Le manca inoltre il phisique du rôle, tanto che nel primo atto, anche per il costume poco azzeccato, più che Aida sembra Azucena, la gitana del Trovatore. Roberto Alagna, grande tenore in altro repertorio, ha una vocalità che non collima con quella eroica di Radamès. Le buone intenzioni nel fraseggio non bastano per compensare la carenza di squillo negli acuti e di mordente nella scansione. Non brilla nemmeno sul versante lirico, dove impiega falsetti al posto delle mezzevoci. Ildikó Komlósi delinea una Amneris poco consistente nel registro medio-grave e di scarsa incisività in quello acuto, anche se in alcuni passi sa destreggiarsi bene sotto il profilo espressivo. Infine, nei panni di Amonasro, Carlo Guelfi incappa in sparse ruvidità e forzature veriste, a scapito della nobiltà che si richiede ai re e ai padri verdiani.

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