Quando il sipario si apre, in scena vediamo solo un cavalletto con tela, una statua della Madonna e il cancello di quella che dovrebbe essere la cappella degli Attavanti. È quanto resta della tradizionale ambientazione barocca in Sant’Andrea della Valle. Il pavimento è spaccato e inclinato, il fondale buio: si respira un’aria di incuria e abbandono. Durante lo spettacolo il palcoscenico si sgretola progressivamente, facendo emergere terra, rocce, detriti. Nel terzo atto lo spazio si fa desolato, quasi astratto; i costumi d’epoca dei protagonisti sono lacerati e bruciati. Sembra di vedere Manon e Des Grieux nel deserto della Louisiana, più che Tosca e Cavaradossi a Castel Sant’Angelo.
Secondo Serena Sinigaglia, regista dell’edizione di Tosca realizzata per la Fenice di Venezia nel 2014 e di cui il teatro veneziano trasmette sul suo canale YouTube la ripesa del 2019 (video), il capolavoro di Puccini parla della devastazione del bello, dello scontro tra la prevaricazione, l’oscurantismo e l’avidità compulsiva incarnati da Scarpia e la creatività e l’amore per la libertà impersonati da due artisti come Tosca e Cavaradossi. La protagonista, in particolare, è una specie di pasionaria, che incarna il bene come canone estetico e difende il suo amore fino al gesto rivoluzionario del tirannicidio e alla morte. Si capisce che il punto di partenza di questa lettura è la celebre, quanto abusata e fraintesa, frase del principe Miškin, l’idiota tutt’altro che idiota di Dostoevskij: “la bellezza salverà il mondo”. Se è vero che il bello è anche il buono (eticamente), allora – secondo l’interpretazione più accreditata – si dovrà conferire all’arte il potere di essere strumento salvifico o, in subordine, di offrire una consolazione al dramma dell’individuo nel declino di una civiltà che le ideologie e gli eventi politici non sono stati in grado di salvare.
Certo attribuire potere di salvezza al bello può sembrare una forzatura, se non un’utopia. I gerarchi nazisti erano grandi cultori della musica e dell’arte e con loro sappiamo com’è andata a finire. Non sempre l’arte è edificante; spesso si offre all’urto della contraddizione che la vita, la realtà e l’essere portano sempre con sé. L’arte e la musica, insomma, non necessariamente transitano sulla barca di Ulisse che conduce a casa, alla salvezza; spesso occupano la barca di Orfeo che porta agli Inferi, allo strato più profondo e caotico dell’uomo. Nello spettacolo della Sinigaglia, quando alla fine Tosca si butta nel vuoto e nel buio dall’unico brandello di palcoscenico rimasto, nonostante il gesto eroico e rivoluzionario, riesce difficile credere che ci sia salvezza per lei, Cavaradossi e il loro mondo di bellezza e libertà. Al di là delle stesse intenzioni della regista, resta insomma un senso di vuoto e di minaccia. Aggiungo che nella inconsueta e scarna cornice scenografica realizzata da Maria Spazzi (i costumi sono di Federica Ponissi), la regia della Sinigaglia si inserisce con una impronta tutto sommato tradizionale e poco incline a sondare le ambiguità psicologiche dei protagonisti. L’esito, pur non essendo memorabile, risulta a suo modo suggestivo, grazie anche al contributo del light designer Alessandro Verazzi.
TOSCA di Giacomo Puccini
Floria Tosca Chiara Isotton
Mario Cavaradossi Azer Zada
Il barone Scarpia Sebastian Catana
Cesare Angelotti Cristian Saitta
Il sagrestano Matteo Ferrara
Spoletta Cristiano Olivieri
Sciarrone Armando Gabba
Un carceriere Antonio Casagrande/Giampaolo Baldin
Un pastore solista del Coro dei Piccoli Cantori Veneziani
Direttore Daniele Rustioni
Regia Serena Sinigaglia
Scene Maria Spazzi
Costumi Federica Ponissi
Light designer Alessandro Verazzi
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
Maestro del Coro Claudio Marino Moretti
Piccoli Cantori Veneziani maestro del Coro Diana D’Alessio
Photo credit: Michele Crosera