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La Fenice trasmette su YouTube “Signor Goldoni”, opera dedicata al commediografo veneziano

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Nelle opere contemporanee, più che la musica, a latitare è quasi sempre il libretto: si tende infatti a privilegiare la partitura a scapito della storia, dell’azione, della drammaturgia. Risultato? Se la musica cosiddetta colta presenta problemi di comunicatività per il grande pubblico, la sistematica debolezza del testo finisce per creare, sul piano teatrale, vuoti spaventosi.

Così può accadere di assistere a un dramma giocoso – realizzato nel 2007 come omaggio a Carlo Goldoni nel terzo centenario della nascita – tutto basato su una storia strampalata e frammentaria, antirealistica e dai toni surreali, teatralmente inconsistente. Musicato da Luca Mosca (compositore peraltro sempre molto interessante) su libretto di Gianluigi Melega, e rappresentato in prima assoluta alla Fenice di Venezia, che da sabato 6 giugno lo propone sul suo canale YouTube, Signor Goldoni è un esempio di meta-teatro concepito come trionfo dell’artificio. A cominciare dalla scelta del testo in inglese. Nell’ottica di Mosca e Melega, la lingua della Perfida Albione consentirebbe l’apertura a un pubblico internazionale (per quello italiano ci sono i sopratitoli) e, privilegiando parole tronche e con poche sillabe, si rivelerebbe molto più musicale e poetica dell’italiano e del veneziano. Qualche esempio? “Mozzarella like confetti, / a delirium of spaghetti / and lasagna with ragout, / pasta pesto will come next to /ossobuco with rizotto / to go with tiramisu”. Così Arlecchino nel primo atto, mentre il coro, tra applausi e risate, inneggia: “From Rio to Dublin / from Tokyo to Berlin / three cheers for Harlequin!”.
Un altro personaggio dell’opera, il poeta erotico Giorgio Baffo, inneggia invece alla mona: “Mona as the full Moon / that makes lovers swoon: / for a kiss of your lips /I’d give heaven a miss”. Traduzione: “Mona come la luna piena fa svenire gli amanti, per un bacio di sue labbra il paradiso perderei”. Sarò anche un filologo da quattro soldi ma, col permesso di Mosca e Melega, da veneziano trovo molto più musicali e poetiche le rime di Baffo in lingua originale: “Mona, cossa mai xestu, che ti ha tanta / forza, e vertù de far tirar i cazzi, / che ti fa deventar i savi pazzi, / e i coraggiosi in ti se perde, e incanta”.

L’omaggio a Goldoni, in realtà, è poco più di un pretesto. Nell’opera, il commediografo si trova nei Campi Elisi e gli viene concesso di tornare per una sera a Venezia insieme con il licenzioso poeta Baffo, quasi un suo alter ego, e l’Anzolo Rafael. In un palazzo rinascimentale, nel corso di una festa mascherata dedicata a Shakespeare, il terzetto si imbatte in una serie di personaggi teatrali e operistici, tra cui Arlecchino, la locandiera Mirandolina, Despina del Così fan tutte, Desdemona e Otello (che, tolta la maschera, rivelerà di essere il drammaturgo inglese). Alla fine, dopo una sequela sconclusionata di travestimenti, inganni, baruffe e gelosie, Goldoni, Shakespeare e l’Anzolo ritornano nei Campi Elisi, mentre gli altri protagonisti si cimentano in profondissime riflessioni, tipo: “il cielo può attendere”, “la vita è una commedia da godere, il resto è una burla”. Sempre in inglese, naturalmente, che fa molto più poèsia.

I molteplici registri stilistici del divertissement di Melega, col suo caleidoscopio di citazioni, battutine, rime e giochi di parole, sono assecondati da una musica concepita per un grande organico strumentale: contrappuntistica, traboccante di spunti melodici, estranea al declamato che contraddistingue gran parte delle opere contemporanee. Il ricorso al polistilismo da parte di Mosca è disinvolto, addirittura sfrenato e sfocia in un fitto reticolo di rimandi: dal barocco veneziano a Britten, allo Stravinskij di The Rake’s Progress, dal Verdi di Falstaff e Un ballo in maschera allo Strauss di Ariadne auf Naxoxs. Il legame con la tradizione, e il Settecento in particolare, è evidente non solo nel ricorso ai numeri chiusi (arie, duetti, serenate, ensemble, ecc.), ma anche nella scrittura vocale, ritagliata – come accadeva alle prime esecuzioni d’un tempo – sulle possibilità dei primi interpreti.

Di qui la vocalità eccezionalmente estesa e variegata, quasi androgina, dell’Anzolo Rafael, divisa tra acuti e agilità da soprano leggero ed emissioni di petto, e calibrata sulle potenzialità della bravissima Alda Caiello. Il ruolo di Desdemona è invece pensato per una delle poche voci contraltili odierne, Sara Mingardo: pastosa, impeccabile nel legato, toccante nell’accento e nel fraseggio. Di grande rilievo la prova di Barbara Hannigan, per la quale Mosca concepisce un’aria acrobatica, in cui il personaggio di Despina dà letteralmente i numeri in una tirata elencativa, e apprezzabile pure il contributo di Cristina Zavalloni nei panni della spigliata, petulante Mirandolina. Meno interessanti i ruoli maschili, affidati a interpreti meno autorevoli. Figura comunque bene Roberto Abbondanza (efficace Signor Goldoni) e se la cava Chris Ziegler, il poeta Baffo. Vocalmente opaco l’Arlecchino di Michel Bennet, poco incisivo Michael Liebundgut nei panni di Otello /Shakespeare.

A ogni modo, il merito del successo riscosso a suo tempo alla Fenice va al livello pregevole della realizzazione nel suo complesso. A questa contribuiscono la direzione puntuale, incisiva, ma anche duttile e variegata di Andrea Molino, nonché lo spettacolo con l’impianto scenico di Santi Centineo (dove i cerchi del Paradiso si trasformano nella prospettiva di un teatro capovolto) e la regia di Davide Livermore, briosa, ironica, ben sintonizzata con la partitura e il taglio meta-operistico e surreale del libretto.

Photo credit: Michele Crosera

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