La Fenice propone su Youtube la magnifica Aida di Ceroli-Bolognini

Da venerdì 15 maggio il Teatro la Fenice di Venezia propone sul suo canale YouTube l’edizione di Aida con le scene di Mario Ceroli e la regia di Mauro Bolognini riproposta con successo nel maggio 2019 a 40 anni di distanza dallo storico debutto. Lo spettacolo è visionabile a seguente link: https://www.youtube.com/user/TeatroFeniceVenezia/featured

Scultura e architettura sono state considerate a lungo refrattarie al teatro d’opera. La scena pittorica, con la sua bidimensionalità intesa come superficie-fondale, l’ha fatta a lungo da padrona. Solo a partire dagli anni Settanta del Novecento, l’apporto degli scultori alla modernizzazione della scenografia diventa più rilevante. In sintonia con una tendenza all’arte monumentale diffusa in Italia e all’estero, i palcoscenici vengono occupati da grandi, a volte gigantesche, installazioni.
Uno dei contributi più importanti al rinnovamento della scena lirica italiana lo offre Mario Ceroli. Lo spettacolo che segna il debutto dello scultore nell’opera è la Norma scaligera del 1972, realizzata in tandem con Mauro Bolognini. L’obiettivo dichiarato di eliminare orpelli decorativi e sovrastrutture degli allestimenti tradizionali attraverso una macchina teatrale girevole, che in ogni quadro presenta un solo elemento scultoreo a suggerire l’ambiente, non ottiene grandi consensi. Piovono anzi le stroncature. L’impianto viene definito con molta superficialità: “una scatola delle costruzioni”, “colossale trabiccolo”, “cassone da imballaggio”.
Il giudizio dei critici musicali nei confronti del lavoro di Ceroli cambierà decisamente qualche anno dopo, nel 1978, in occasione dell’allestimento di Aida realizzato sempre con Bolognini per La Fenice di Venezia. L’intenzione, in questo caso, è il capovolgimento della tradizione kolossal areniana a favore di una visione di taglio “intimistico” che evidenzi più i drammi dei personaggi che la grandiosità della descrizione ambientale. Assunto che oggi sembra quasi banale e scontato, ma che all’epoca era una novità, destinata a far scuola nel corso dei decenni successivi grazie anche alle riprese dello spettacolo in numerosi teatri italiani ed esteri.

L’attuale riproposta alla Fenice di quello storico allestimento (entrato negli annali della lirica anche per il debutto operistico di Giuseppe Sinopoli) consente di verificarne non solo la bellezza e l’intatta suggestione, ma anche l’assoluta modernità concettuale. Ceroli prende spunto dalla prescrizione di Verdi che, nel quarto atto, prevede un palcoscenico articolato su due livelli: in alto il tempio di Vulcano invaso dalla luce, con Amneris sconfitta che invoca la pace; in basso l’oscuro sotterraneo in cui vengono sepolti Aida e Radamès. Questo impianto viene esteso dallo scultore anche ai tre atti precedenti: il piano superiore, dominato da un’ampia scalinata, diventa così uno spazio aperto, luogo del potere e della sua celebrazione; quello inferiore – un architrave sostenuto da colonne – accoglie nella penombra il mondo degli sconfitti. Un ambiente antinaturalistico e stilizzato, ai limiti dell’astrazione, nel quale Ceroli inserisce alcune sculture dalle forme geometriche e primordiali, fra cui tre piramidi e quattro sfingi, più alcuni dei suoi tipici “fantasmi plastici”, come le sagome umane seriali, che trasmettono un’idea di dinamismo e movimento verso un orizzonte indefinito.
Ne esce un Egitto evocato con semplicità costruttiva, essenziale eppure nitidamente presente, dalle suggestive tonalità sabbiose, con cui legano alla perfezione i colori caldi dei bellissimi costumi di Aldo Buti. Completano il quadro le splendide luci (in questo caso curate da Fabio Barettin) e la regia di Mauro Bolognini, ripresa con filologica attendibilità da Bepi Morassi. Certo tutto è molto tradizionale nella gestualità e la sensazione in più punti è di un diffuso immobilismo, a tratti ravvivato delle funzionali coreografie di Giovanni Di Cicco. E qui va detto che uno dei limiti del pur magnifico impianto di Ceroli è proprio quello di penalizzare i movimenti di massa, oltre al fatto di compromettere in alcuni momenti l’amalgama delle voci del coro. Nondimeno, l’effetto complessivo è di uno spettacolo innovativo in rapporto all’epoca in cui è stato concepito, tuttora moderno e di grande impatto, capace di dare pieno risalto alla melodrammaturgia verdiana.

Il versante musicale di questa Aida fenicea è nell’insieme convincente. A partire dalla conduzione di Riccardo Frizza, che garantisce una cornice orchestrale ben sintonizzata con le atmosfere della messinscena. Più che l’impianto grandoperistico, il direttore privilegia una lettura interessata a esaltare con asciutta incisività la dimensione cerimoniale e soprattutto la componente drammatico-politica. Dirige con energia, vigore e tempi tendenzialmente spediti, assicurando un passo teatrale serrato. Va anche detto che Frizza non penalizza il lirismo di alcune pagine, né la varietà delle atmosfere, restituendo a dovere quelle esotiche e misteriose. Lo fa però senza estenuazioni o allentamenti di tensione, mantenendo sempre l’impronta unitaria e la continuità narrativa. I cantanti, inoltre, sono sostenuti a dovere.

Nella parte della protagonista debutta un giovane soprano in ascesa, Roberta Mantegna. Tolto qualche occasionale disagio nelle zone più basse della tessitura, si può parlare di una buona prova: la voce nel registro medio-alto è pulita, ha un bel timbro ricco di armonici e si espande nel teatro con facilità e bella proiezione. È un’Aida di impronta sostanzialmente lirica, dalla linea di canto sfumata e dal fraseggio sensibile, cui non manca nemmeno il temperamento per rendere credibili gli affondi drammatici.
Sorprende Francesco Meli, al suo debutto italiano come Radamès. Decisamente in forma migliore rispetto all’edizione di Salisburgo, il tenore canta con un’ottima tenuta vocale: l’emissione è ferma, senza oscillazioni, gli acuti squillano più del solito, il fraseggio è come sempre accuratissimo, espressivo, la dizione nitida. La combinazione di lirismo ed eroismo che contraddistingue il personaggio viene restituita compiutamente. Qualche sporadico falsetto usato al posto della mezzavoce non intacca una prestazione di rilievo.
Purtroppo, manca un’Amneris all’altezza della situazione. Irene Roberts rientra nella tipologia dei soprani corti: al centro e soprattutto in basso difetta di spessore, mentre negli acuti la voce svetta con buona timbratura. Si capisce che è una valida cantante, ma la statura drammatica del ruolo e le sue roventi declamazioni risultano un po’ troppo pesanti per lei.
Roberto Frontali non è a suo perfetto agio nel legare e nell’accentare frasi come “Ma tu o Re”, e nel duetto con Aida del terzo atto a tratti sfiora lo sfogo verista (“Dei faraoni tu sei la schiava”). Tuttavia è un professionista solido e tratteggia un Amonasro dalle emissioni robuste e di apprezzabile impatto drammatico. Quanto ai due bassi, Mattia Denti delinea un Re di efficace autorità, mentre Riccardo Zanellato è un Ramfis corretto, ma stranamente sottotono rispetto al suo standard abituale. Apprezzabili sia la Gran sacerdotessa di Rosanna Lo Greco che il Messaggero di Antonello Ceron. Per quanto a tratti penalizzato dalla disposizione scenica, il Coro della Fenice preparato da Claudio Marino Moretti è eccellente. [Rating:4/5]