Iniziamo dalla fine. Mentre risuonano ancora le note del suggestivo Requiem Hashirim inserito a conclusione di Lou Salomé, dal fondo della platea entra a sorpresa un signore in cappotto: capelli ispidi, faccia barbuta, occhialini da musicista alla Schubert-Mahler. Dopo un attimo di incertezza, lo riconosciamo non senza una punta di inquietudine: è proprio lui, Giuseppe Sinopoli, o meglio, un suo sosia. L’uomo si guarda attorno, attraversa rapidamente la sala e arrivato al proscenio si stende su un lettino da psicanalista. Cala il buio in teatro. Lo spettacolo finisce. L’idea degli artefici della produzione che nel gennaio 2012 aveva inaugurato la stagione del Teatro La Fenice – e della quale ora il teatro veneziano ripropone la registrazione sul suo canale Youtube – a quel punto era chiara: il vero protagonista di Lou Salomé è il compositore stesso, che in un gioco di rispecchiamenti si autoanalizza e si racconta attraverso l’evocazione di un periodo storico indagato per tutta la vita sia in veste di intellettuale che di direttore d’orchestra.
L’ambito storico-concettuale della prima e unica opera teatrale di Sinopoli (Monaco di Baviera, 1981) è definito dalle date di nascita e morte di una figura femminile emblematica, attorno alla quale si colloca la crisi di una generazione di intellettuali mitteleuropei come Nietzsche, Rée, Rilke, Freud. Lou Salomé nasce infatti a San Pietroburgo nel 1861, l’anno in cui vengono liberati i servi della gleba in Russia, e muore a Göttingen nel 1937 in pieno nazismo e alla vigilia del secondo conflitto mondiale. Un arco di tempo in cui si affermano il pensiero negativo, la psicanalisi, il materialismo e lo spiritualismo finis Austriae, con il relativo complesso di correnti e idee che condizioneranno lo sviluppo della cultura moderna e contemporanea. La biografia di Lou, la tormentata allieva di Freud che fa perdere la testa a grandi intellettuali, incline a una sessualità repressa, sublimata, e tuttavia causa prima di un fascino irresistibile, non offre spunti per una azione teatrale vera e propria. Sinopoli dà corpo a immaginazioni, concretizza allusioni, rappresenta come incontri reali tra personaggi quelle che sono tensioni intellettuali, influenze o collisioni di idee. Attraverso il libretto di Karl Dietrich Gräwe – un collage di testi tratti dall’autobiografia della scrittrice e psicanalista russa – viene così ripercorsa in una struttura a pannelli, quadro dopo quadro, una stratificazione delle sensazioni, delle ossessioni e degli eventi psichici stimolati dalle figure maschili che costellano la vita di Lou.
Per Sinopoli, in fondo, direzione, composizione, psichiatria, psicanalisi e archeologia (altra sua passione, incarnata nell’opera dalla figura dell’orientalista Friedrich Carl Andreas, con cui Lou si unisce in un matrimonio “bianco”) sono tante facce diverse di una stessa attività: l’investigazione del profondo, lo scavo degli affetti, della memoria individuale e storica. Quella di Lou/Sinopoli si configura così come una “cura attraverso le parole” riportata alle movenze del racconto, dove è il racconto stesso, per una antica virtù intrinseca alla narrazione, a tessere la cura, a portare alla consapevolezza di sé. È chiaro insomma che non siamo di fronte a un’opera teatrale in senso stretto, ma a musiche di scena per un teatro mentale.
La partitura, nell’imponente spiegamento di mezzi orchestrali e corali, ha un’impronta retrospettiva e presenta una commistione di tecniche e stili diversi attinti in particolare dalla cultura musicale tardo ottocentesca, con citazioni che vanno da Richard Strauss a Puccini, a Mahler, a Berg, con qualche innesto ironico-grottesco memore di Weill. Il recupero di forme musicali del passato, della tonalità e della vocalità cantabile – a tratti perfino virtuosistica – fanno di Sinopoli un melodista ritrovato, un compositore che dopo decenni di frantumazione del linguaggio musicale recupera il gusto della discorsività, di una eloquenza che si sviluppa in grandi archi espressivi e in densità melodiche.
Peculiarità che l’esecuzione alla Fenice documentata in video evidenzia adeguatamente grazie alla direzione puntuale, analitica, ma allo stesso tempo piena di respiri e sfumature di Lothar Zagrosek, e a un cast ben preparato e immedesimato nel quale si impone la prova di Ángeles Blancas Gulín nella parte massacrante della protagonista. Eclettica nella vocalità (spesso al limite), scenicamente duttile, l’interprete divide il ruolo con un’attrice di prosa (Giorgia Stahl), secondo uno sdoppiamento previsto dallo stesso Sinopoli. Efficaci gli altri cantanti: Gian Luca Pasolini (Rée/Un servitore), Roberto Abbondanza (Andreas), Marcello Nardis (Gillot/Kinkel), Matthias Schulz (Rilke), Julie Mellor (la signora von Salomé). Da ricordare pure la presenza di Claudio Puglisi nel ruolo recitato di Nietzsche e la bella prova del coro preparato da Claudio Marino Moretti, collocato fuori scena e amplificato da Alvise Vidolin.
Un altro punto di forza di questa ripresa (nel 2012 ricorrevano i trent’anni dalla prima assoluta e il decennale dalla scomparsa di Sinopoli) è l’allestimento affidato agli studenti della Facoltà di design e arti IUAV di Venezia e ai loro tutors: Luca Ronconi, Margherita Palli, Franco Ripa di Meana. Il merito principale è di dare movimento e consistenza teatrale a un libretto e a un racconto mentale non facilmente praticabili sul piano drammaturgico. Le dieci scene raggruppate in due atti e contenute, con qualche taglio, in due ore di durata, si svolgono non in palcoscenico – che ospita invece l’orchestra – ma in platea, trasformata in una installazione dove i protagonisti agiscono in accurati costumi d’epoca. Al centro campeggia un albero, simbolo della ciclicità della vita (ma anche della conoscenza), con accanto una croce distesa, mentre un sentiero disseminato di libri – i frutti degli intellettuali protagonisti – collega un palco centrale al proscenio: qui una scrivania e un letto evocano lo studio da psicanalista di Lou. Nel corso della rappresentazione proiezioni laser e giochi di luci scorrono lungo i parapetti e i fregi dorati dei palchi, culminando nell’incendio finale che allude a un mondo che sta per essere travolto dal disastro della guerra.
Alla fine, si resta con la sensazione di un’opera interessante, per quanto antiteatrale e irrisolta (non per niente Sinopoli la ritirerà ripromettendosi di sottoporla a revisione), incentrata sulla consapevolezza dell’impossibilità di guarire le sofferenze psichiche e i disagi esistenziali. In questo senso, anche la trovata conclusiva dell’apparizione del compositore che si sottopone all’analisi non risulta poi così fuori luogo e di cattivo gusto, come qualcuno sostenne all’epoca. In un mondo in cui Dio è morto e le rivoluzioni falliscono, nemmeno il lettino psicanalitico, ultima metafora del raccoglimento prima religioso e poi filosofico, può offrire soluzioni definitive. Cercare l’origine del dolore esclusivamente nella patologia e nella biografia non porta a un risanamento: scopo ultimo dell’analisi – sembrano suggerire le figure di Lou/Sinopoli – non è la guarigione, ma la conoscenza di sé, di cui solo il racconto può farsi mediatore, ricostruendo una trama esistenziale che, senza analisi, siamo soliti lasciare in frammenti di solitudine. (Photo credit: Michele Crosera)