Di fronte a uno spettacolo multiplo si ripropone puntuale il gioco delle differenze e delle analogie. Che cosa accomuna per esempio due atti unici come La voix humaine di Francis Poulenc e Cavalleria rusticana di Pietro Mascagni allestiti con successo al Comunale di Bologna nel 2017 e proposti oggi 22 maggio su Rai5 alle 17.30? La risposta fino a qualche tempo fa sarebbe stata semplice e ovvia: niente. Tant’è vero che nel 2000 il teatro bolognese presentò l’opera di Poulenc abbinandola all’altro titolo-manifesto del verismo musicale italiano, Pagliacci, e la proposta venne considerata semplicemente una strana accoppiata. Nel programma di sala si poteva leggere: “Le opere maritate debbono la propria condizione a un unico motivo principale: sono brevi e, da sole, non fanno serata”.
A un ventennio di distanza la percezione è cambiata. Questa volta il punto di contatto fra la Voix e Cavalleria è ben preciso e viene individuato da Emma Dante nella figura centrale della donna: trattata come un oggetto, abbandonata e destinata a una solitudine che, nell’ottica della regista, è “determinata da una impostazione fortemente maschilista”. Forse Santuzza è più sola di Nedda e vittima di maggiore violenza? Evidentemente no. Il punto è che pochi lustri possono equivalere a un’era geologica, se consideriamo che di mezzo c’è stato l’avvento del politicamente corretto, dell’ideologia terzomondista e degli studi di genere. Nel 2000 Carmen aveva ancora un’aura femminista, oggi è un’opera sul femminicidio; Aida era un capolavoro che dava voce al dolore dei vinti, ora è invece in odore di colonialismo e razzismo (come Madama Butterfly). La sensibilità di oggi applicata alla storia di ieri induce a vedere nel melodramma ottocentesco un’estetica che teorizza la violenza sulle donne, secondo uno schema che nel teatro musicale si ripete fino alla metà del Novecento.
Ciò premesso, resta il fatto che, al di là dei presunti punti di contatto, delle intenzioni e delle progettualità dichiarate, la Voix e Cavalleria sono due lavori completamente diversi dal punto di vista drammaturgico e musicale. L’atto unico di Poulenc (1959), traduzione in musica dell’omonima pièce teatrale di Cocteau, più che un’opera, sembra addirittura un’antiopera, tanto è essenziale e scabra negli ingredienti: un soprano, una piccola orchestra, frammenti di gesti e frasi. Il canto si modella sulla parola, non vive di norme proprie ma di quelle dell’espressione verbale e drammatica.
Coadiuvata dallo scenografo Carmine Maringola (i costumi sono di Vanessa Sannino), Emma Dante concepisce giustamente due allestimenti autonomi, di taglio completamente opposto. Nella Voix humaine la messinscena rispetta la dimensione psicologico-borghese del monologo di Poulenc. Il sipario si apre su una stanza dalle pareti rosa pastello, sghemba e asettica, arredata con due letti e due comodini bianchi: l’ambientazione sembra evocare il consueto hotel parigino in cui si svolge la patetica telefonata di una donna con l’ex amante. Via via si capisce che siamo invece in una clinica psichiatrica. Dall’altro capo del telefono non c’è nessuno: l’abbandono ha trasformato Elle in una pazza per amore. Oltre all’andirivieni di un medico e di due infermiere, sulla scena si materializzano altri personaggi: sono le nevrosi e le proiezioni mentali della protagonista, i fantasmi del suo passato. Progressivamente lo spazio scenico diventa angusto; le luci, le situazioni e la recitazione si fanno più inquietanti e drammatici, culminando con il gesto disperato e liberatorio di Elle che strangola con il filo del telefono il fantasma dell’amante.
La lettura della Dante tende a rendere più complessa di quanto non sia la tragédie lyrique di Poulenc e tuttavia non si avvertono forzature. Il merito è anche di Anna Caterina Antonacci, acclamatissima dal pubblico, che affronta questo tour de force vocale e psicologico con la statura della primadonna carismatica. Per una volta, siamo di fronte a un’interprete credibile, non al solito soprano sulla via del disarmo che potrebbe essere verosimilmente la nonna del bastardo telefonico. La Antonacci è esattamente la protagonista concepita dal compositore francese: una Elle ancora giovane e bella, capace di recitare benissimo e di assecondare con vocalità duttile una scrittura variegata, che va dal sussurrato al canto teso e spiegato. L’intelligenza musicale e il fraseggio analitico consentono inoltre all’interprete di cogliere ogni sfumatura psicologica del testo.
La direzione duttile di Michele Mariotti valorizza la sofisticata strumentazione di Poulenc e contrappunta i mutevoli stati d’animo del personaggio ora con trasparenza ora con incisività, creando lo sfondo drammatico ed emotivo di volta in volta più appropriato. Il tutto senza perdere di vista il senso di tensione unitaria che deve fare da collante a una partitura di per sé disomogenea.
Clima decisamente diverso nell’allestimento di Cavalleria rusticana. Il contrasto visivo è forte. In un palcoscenico nero, quasi vuoto, tre piccole strutture mosse da figuranti creano i luoghi dell’azione: un terrazzo, il balcone di Lola, l’osteria di mamma Lucia, l’altare e le scalinate della chiesa. Non un contesto realistico. Per Emma Dante, l’opera non evoca cartoline o i luoghi comuni dell’iconografia verista, ma un clima di passione pasquale percorso da tristezza sconsolata, violenza e, soprattutto, da un senso religioso preminente e opprimente.
Anche se non mancano momenti di ironia e giocosità (le danzatrici-cavalle impennacchiate di Alfio), la Dante trasforma di fatto Cavalleria in una sacra rappresentazione. E qui la sua chiave di lettura non quadra del tutto. Fin dall’inizio appare un Cristo nero che trascina la croce sotto le frustate del centurione, seguito da Maria e dalle pie donne, percorrendo le tappe di una Via Crucis che si concluderà con l’identificazione fra il pianto di mamma Lucia e quello della Madonna e quindi con un evidente, quanto forzato parallelismo fra il martirio di Cristo e quello di Turiddu (che agnello sacrificale proprio non è). Il tutto suggellato dalla citazione del Compianto sul Cristo morto di Niccolò Dell’Arca. In questa discutibile cornice sacra, si affastellano così momenti bellissimi (il duetto-sfida fra Turiddu e Alfio coi suoi picciotti) e altri meno convincenti, come il brindisi-baccanale che si conclude con uno svenimento collettivo. Tuttavia, al di là delle forzature e di alcune soluzioni meno riuscite, si tratta pur sempre di uno spettacolo ben gestito, che conferma, se mai ce ne fosse bisogno, la capacità di Emma Dante di fare vero teatro.
Quanto a Mariotti, la peculiarità della sua direzione è di non rifarsi ad alcuna tradizione interpretativa, ponendosi con un atteggiamento per così dire vergine rispetto alla partitura di Mascagni. Questo comporta un fraseggio orchestrale del tutto originale, capace di sottolineature analitiche e di particolari inediti che sono lontani dalle esteriorità espressive più banali, dalle sonorità enfatiche e debordanti. Il verismo di Mariotti non è viscerale e congestionato, ma lineare e razionale, quasi una atmosfera morale, che vive comunque di forti contrasti coniugando la potenza drammatica, emendata dalla retorica vecchio stampo, con la trasparenza e la dolcezza. Vero è che l’originalità sconfina a tratti con l’eccentricità, con accelerazioni e rallentamenti fin troppo marcati, ma che la conduzione asciutta e allo stesso tempo incisiva di Mariotti porti una ventata di freschezza è fuori discussione.
I cantanti si inseriscono in questa cornice inedita ciascuno secondo le proprie possibilità. L’unico a possedere i requisiti vocali per affrontare il repertorio verista è Marco Berti, che interpreta Turiddu. Lo squillo del suo registro acuto, in rapporto al volume delle altre voci, è quasi impressionante. Il tenore risulta inoltre più attento e misurato nel fraseggio rispetto ad altre occasioni. Purtroppo i tentativi di alleggerire e sfumare le emissioni si traducono pressoché sistematicamente in stimbrature e, soprattutto, in vistosi cali di intonazione (come nell’Addio alla madre). La vocalità di Carmen Topciu non è invece l’ideale per il ruolo di Santuzza: oltre che di peso specifico difetta di pastosità al centro e di timbratura negli acuti, che risultano duri e forzati. Senza dubbio, l’interprete si dimostra molto ligia all’impostazione di Mariotti e quindi riesce a farsi valere a tratti per gli accenti dolenti e l’espressione intimizzata. Nondimeno, farebbe meglio a frequentare più prudentemente altri ruoli e repertori.
Nemmeno Gezim Myshketa è nato per cantare il verismo: negli acuti è costretto ad aprire e forzare i suoni. Devo dire però che raramente capita di ascoltare in teatro un Alfio così originale, fraseggiato senza sbracature, con nervosismo e incisività drammatica, ma soprattutto capace di intuizioni e risvolti inediti. Uno su tutti, lo strepitoso “Nel nome di Dio, Santa,che dite?”, intonato, con un misto di smarrimento, implorazione e dolore, come se in quel momento il mondo gli crollasse addosso all’improvviso. Un momento da grande interprete, insomma. Ricordo infine l’efficace Mamma Lucia di Claudia Marchi e la Lola scenicamente credibile ma vocalmente modesta di Anastasia Boldyreva. Positiva la prova del coro diretto da Andrea Faidutti.
Photo credit: Rocco Casaluci