La figura della nutrice è, forse, una delle più curiose, sfaccettate e multiformi del panorama letterario, teatrale e musicale; di volta in volta ricopre, difatti, un ruolo differente: confidente di giovani e fanciulle; fida amica; testimone oculare dei fatti; grottesca mezzana; intrigante dallo spiccato senso pratico; donna attempata e lussuriosa, bramosa di attenzioni fisiche. A partire dalle celebri balie monteverdiane, la materna Euriclea de Il ritorno d’Ulisse in patria e la smaliziata Arnalta de L’incoronazione di Poppea, numerose sono le nutrici, appannaggio di contralti e tenori, che compaiono nelle composizioni musicali, in particolare nel repertorio sei e settecentesco, per arrivare a esempi più recenti come la sapida Gertude in Roméo et Juliette di Gounod. Per una panoramica dettagliata e informazioni più precise, anzitutto per quanto concerne il secolo XVII, si rimanda ad alcuni scritti imprescindibili di Rodolfo Celletti, come Voce di tenore.
In tale contesto una miniera preziosa, spesso ancora insondata, è quella del repertorio italiano barocco, in special modo di matrice veneziana. Bene ha fatto, quindi, il giovane tenore Marco Angioloni ad attingere a questo ricco bacino, proponendo una gustosa selezione di arie tenorili da balia, tratte da opere barocche, per il suo primo album Il Canto della nutrice, pubblicato dall’etichetta discografica Da Vinci Classics. Nato ad Arezzo e, probabilmente, poco noto ai più in Italia, dopo aver conseguito il diploma in oboe presso il Conservatorio di Firenze, l’artista toscano si accosta allo studio del canto lirico, trasferendosi quasi subito a Parigi, dove si perfeziona e prosegue gli studi, frequentando anche masterclass con, fra gli altri, Chris Merritt, Barbara Bonney, Karine Deshayes e Inva Mula. Dopo il debutto operistico del 2013 come Normanno in Lucia di Lammermoor, al Théâtre dell’Apostrophe di Cergy-Pontoise, ha iniziato una carriera che lo ha portato a esibirsi su numerosi palcoscenici, principalmente in Francia, Germania, Svizzera. Nel corso degli anni ha collaborato con direttori illustri quali Christophe Rousset e Jean-Christophe Spinosi, cantando soprattutto in titoli di Monteverdi, Cavalli, Händel, Mozart, Lully, Purcell, interpretando anche vere e proprie rarità come Richard Löwenherz di Georg Philipp Telemann, La morte di Orfeo di Stefano Landi e Amare e fingere di Alessandro Stradella.
Nel disco, Angioloni emerge per una raffinata sensibilità musicale e, innanzitutto, per un’espressività stuzzicante e arguta, data da un fraseggio ricco di accenti e inflessioni, molto comunicativo e trascinante, mai meccanico o manierato. La voce risulta, nel complesso, morbida nell’emissione e abbastanza omogenea, dalla timbrica luminosa screziata di seducenti sfumature ramate; le note alte sono centrate e lucenti, quelle gravi a tratti acerbe. Si apprezza, inoltre, lo scrupoloso lavoro di ricerca e filologia compiuto dal tenore, con la registrazione in prima mondiale della quasi totalità dei pezzi proposti.
La parte del leone la fa il compositore cremasco Francesco Cavalli, erede di Monteverdi e, da adolescente, prima sopranista artificiale e poi tenore della Cappella Marciana di Venezia; infatti, ben undici dei diciassette brani della tracklist sono suoi. Dal dramma musicale del 1645 La Doriclea è tratto il recitativo e aria “Voglio provar anch’io […] A’ scherzi lascivetti”, improntato a ritmi brillanti, in cui si evidenziano notevoli melismi vocali, dalle venature pastellate, e un registro grave opaco. In “Quasi ancora lattante […] Donne tali noi siamo”, da L’Eitrea del 1652, l’artista dimostra di possedere una musicalità rifinita e di riuscire a piegare la propria vocalità a uno stile maggiormente elegiaco e trattenuto. Dall’Erismena è tratta “Quanto mi duol […] Maledetto sia del tempo”, dove Marco Angioloni si impone per un fraseggiare martellante e al calor bianco; nell’aria “Alla fin son ancora bella […] Salitemi, salitemi sul crin”, dall’Orimonte del 1650, si distingue invece per una linea di canto più melodica e piana. Accanto al Satirino mercuriale e puntuto del soprano Francesca Martini, nell’aria “D’aver un consorte io son risoluta” dal celebre dramma La Calisto, impersona una Linfea determinata, animata e potentemente teatrale, in particolare nell’intenso declamato “Compagne, compagne, soccorretemi, soccorretemi!”, recitato con trasporto e pregnanza. Dell’opera del 1665 Muzio Scevola si ascoltano due arie: in “Bench’il tempo che fuggì la bellezza” apprezziamo ampie arcate di voce; mentre in “Uditemi oh Stelle! Miratemi ohimè!”, dal tono intriso di pathos, colpisce l’espediente adottato per riprodurre le ripetizioni in eco. In “Hipparco, se non hai altra amante che Clori […] Piacque a me sempre più la vaga”, dalla favola drammatica musicale L’Egisto, si segnalano una dizione incisiva, suoni flautati e soffici, soprattutto nel registro di mezzo e in quello acuto, e alcune note basse non a fuoco. Dall’Eliogabalo sono tratte “È gran cosa che l’età porti tedio […] Giovinette superbe non disprezzate” e “Se un candor misto al cinabro”, ambedue caratterizzate da un gusto squisito nel porgere la parola, da un’intonazione salda e da messe di voce squillanti e armoniose. Al florilegio delle composizioni di Cavalli si aggiungono due brani da L’Ottavia restituita al trono di Domenico Scarlatti, su revisione e ricostruzione del violinista Alessandro Ciccolini: la bella aria “Le fravolette di questa bocca”, certo non inficiata da qualche sonorità sporca, e il recitativo e duetto “Zi zi! […] Arrogantaccio, va via di qui” assieme alla cristallina e a tratti disomogenea Francesca Martini, in cui Angioloni spicca per una vocalità morbida e calibrata, doviziosa di accenti e colori, e per un fraseggio netto e chiaroscurato. Nel programma è presente anche un brano del veneziano Antonio Sartorio, tratto dall’opera L’Orfeo del 1672, “Non ho core per mirar vago volto”, nel quale si apprezza lo strumento vocale malleabile e di grana luminosa, schiettamente tenorile.
In questo recital interessante e per nulla scontato, registrato nel 2019 a San Marco Villalba, il giovane artista è accompagnato dall’ensemble da lui stesso fondato, Il Groviglio, specializzato nel repertorio italiano dei secoli XVII e XVIII. La compagine orchestrale intesse un tappeto sonoro crepitante, impreziosito di sfolgoranti baluginii e improntato a un’agogica mobile e dinamica, che ben si sposa e amalgama con la voce screziata di Angioloni. Il Groviglio si esibisce lodevolmente anche in quattro pezzi orchestrali: la scattante Sinfonia dal Muzio Scevola di Cavalli, dai suoni accesi e sferzanti; la Sinfonia dell’aretino Pietro Antonio Cesti per Il Tito, dall’andamento maggiormente lineare; un brano del pistoiese Alessandro Melani, tratto dalla composizione Il Girello, ovvero la Sinfonia nella quale si giustappongono e bilanciano cromie e tonalità; la concisa, solenne Sinfonia dal Seleuco di Sartorio.
In conclusione, l’album è un gradevole, curioso, nuovo tassello che si aggiunge alla discografia barocca, negli ultimi anni ricca di esperimenti più o meno riusciti: nel caso in analisi, diremmo che l’esito è, sicuramente, più che positivo ed encomiabile.
IL CANTO DELLA NUTRICE.
NURSE TENOR ARIAS IN ITALIAN BAROQUE OPERA
Musiche di Cavalli, Cesti, Melani, Sartorio, D. Scarlatti
Marco Angioloni tenore
Francesca Martini soprano
Ensemble Il Groviglio
Da Vinci Classics
Formato: CD