Nonostante si paventino nuovi limiti alla capienza dei teatri e molte istituzioni continuino a navigare a vista per quanto riguarda la programmazione, il Teatro del Maggio inanella la terza produzione scenica in poco più di un mese, ritirando fuori un allestimento di Nabucco di Giuseppe Verdi nato al Teatro Lirico di Cagliari e già visto due volte sulle scene fiorentine.
Non era una produzione epocale quando apparve al vecchio Comunale sei anni fa, e non lo è neanche adesso che lo stesso Leo Muscato la riprende per adattarla alle norme di distanziamento sociale. La scena firmata da Tiziano Santi risulta piuttosto essenziale, composta principalmente di pareti d’argilla che si aprono e chiudono per suggerire i vari ambienti, mentre i costumi di Silvia Aymonimo evocano un sobrio Medio Oriente sospeso nell’antichità. Molto quindi fanno le belle luci di Alessandro Verazzi, che aprono squarci nei muri o fermano il tempo in un momento di sbigottimento come il concertato “S’appressan gli istanti”, o nei momenti più riflessivi, la preghiera di Fenena e l’aria di Abigaille “Anch’io dischiuso un giorno”, dove la protagonista si rivolge alla sua immagine bambina. Questa è l’unica trovata in una regia sostanzialmente tradizionale e forzosamente molto statica, ma che in fondo non disturba, lasciando che il grosso dell’emozione teatrale sia convogliato dalla musica.
A tenere le fila del discorso musicale troviamo dunque Paolo Carignani che offre una lettura ieratica e solenne, inquadrando Nabucco come il naturale proseguimento del genere dell’azione sacra di cui il Mosè in Egitto rossiniano è l’esempio più noto. I tempi dilatati e processionali garantiscono una notevole compattezza generale, a livello sia orchestrale che vocale, ma al tempo stesso penalizzano la drammaticità dei momenti più concitati: quindi se la stretta della Sinfonia appare sotto una luce più drammatica, i momenti che portano al finale II o alcuni cori (“Il maledetto non ha fratelli” su tutti) risultano anche troppo lenti e privi di nerbo. Buca e palco risultano comunque ben amalgamati, con i solisti sempre ben sostenuti e messi a loro agio. L’Orchestra offre una buona prestazione, ma è soprattutto il Coro del Maggio Musicale Fiorentino, preparato da Lorenzo Fratini, a emergere: dopo un inizio un po’ incerto nella sezione maschile, la compagine esibisce sempre maggior coesione fino a un “Va’ pensiero” soffice e malinconico, bissato a furor di popolo, e un “Immenso Jeovah” liberatorio e maestoso.
Inutile comunque negare che tutti gli occhi fossero puntati su Plácido Domingo, impegnato nel ruolo del titolo e tornato a esibirsi a Firenze dopo 49 anni (l’unica volta era stata nel 1971 come Calaf in una Turandot diretta da Prêtre). Colpisce ancora la voce ampia e familiare che riempie il teatro con una facilità difficilmente eguagliabile, ma il suo rimane uno strumento prettamente tenorile che si presta ai ruoli baritonali: la parte di Nabucco è comunque piuttosto centralizzante e non mette il cantante in grandi difficoltà. Infatti la zampata del grande artista è ancora ben ravvisabile nel duetto con Abigaille e soprattutto nella scena che apre la quarta parte dell’opera, dove esegue un “Dio di Giuda” accorato e nobile negli accenti, con un fraseggio assai pregnante. Peccato che ciò non si ritrovi nella successiva cabaletta, praticamente accennata, o nella tirata del finale II “S’oda or me!… Babilonesi” in cui pasticcia con le parole e i versi da pronunciare.
María José Siri affronta per la prima volta il personaggio di Abigaille con notevole baldanza vocale, esibendo acuti sicuri e penetranti, anche se qualche filato nel primo terzetto non le viene proprio a meraviglia, e un sapiente uso del registro di petto. Anche se il timbro non è dei più seducenti e il fraseggio risulta un po’ generico, la resa malinconica di “Anch’io dischiuso un giorno” si classifica come uno dei momenti migliori della serata. Alexander Vinogradov incarna molto bene l’autorevolezza di Zaccaria quale guida del popolo ebraico. La voce è voluminosa, connotata da un bel timbro scuro e omogenea su tutta la l’estensione, tanto nelle salite all’acuto che negli affondi gravi. La prima aria manca di mordente nell’articolazione della parola, ma la chiusa della terza parte si rivela un momento assai efficace.
Fabio Sartori è dotato di una bella voce tenorile squillante, motivo per cui non avrebbe bisogno di spingere come invece spesso fa; il suo Ismaele appare inoltre piuttosto inerte scenicamente. Al contrario Caterina Piva è una Fenena centratissima, grazie al bel timbro mezzosopranile e un ottimo dominio della linea vocale che la fanno brillare nell’unico momento solistico della Preghiera. Per quanto riguarda i comprimari, Alessio Cacciamani è un perfetto Sacerdote di Belo, sia per gli accenti che per la vocalità; Carmen Buendía dà il giusto risalto ai brevi interventi di Anna, mentre Alfonso Zambuto appare un Abdallo un po’ stentoreo.
Il folto pubblico non lesina applausi a scena aperta (ne accenna anche uno alla prima apparizione del divo) dopo le varie arie, e tributa un vivissimo successo a tutti i protagonisti e al direttore, con punte di entusiasmo per Vinogradov e la Siri, mentre un vero trionfo accoglie ovviamente l’uscita finale di Domingo.
Teatro del Maggio – Stagione 2020/21
NABUCCO
Dramma lirico in quattro parti di Temistocle Solera
Musica di Giuseppe Verdi
Nabucco Plácido Domingo
Ismaele Fabio Sartori
Zaccaria Alexander Vinogradov
Abigaille María José Siri
Fenena Caterina Piva
Il Gran Sacerdote di Belo Alessio Cacciamani
Abdallo Alfonso Zambuto
Anna Carmen Buendía
Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentino
Direttore Paolo Carignani
Maestro del coro Lorenzo Fratini
Regia Leo Muscato
Scene Tiziano Santi
Costumi Silvia Aymonimo
Luci Alessandro Verazzi
Allestimento del Teatro Lirico di Cagliari
Firenze, 7 ottobre 2020