Elemento centrale della vicenda di Tristan und Isolde è senza dubbio il filtro d’amore che i due protagonisti bevono pensando di darsi la morte. Denis de Rougemont, nel suo fondamentale L’Amore e l’Occidente, che analizza nel profondo il mito dei due amanti, sostiene che la pozione, connotata dall’elemento magico e bevuta per totale accidente, non è altro che un simbolo per nascondere il vero significato della passione; in sostanza è un alibi che permette ai personaggi di non incolpare se stessi per la bramosia continua che li pervade e la conseguente volontà di essere condotti verso la morte, dove potranno finalmente essere un tutt’uno.
Questa breve premessa è fondamentale per capire l’allestimento creato da Ralf Pleger e Alexander Polzin, già visto alla Monnaie di Bruxelles lo scorso maggio. Nelle note di regia riportate nel programma di sala, Pleger spiega che, dopo aver bevuto il filtro, i due amanti raggiungono un altro livello di coscienza e percepiscono la realtà in modo totalmente diverso dagli altri personaggi, come se fossero sotto l’effetto di una sostanza stupefacente. Tristan und Isolde sarebbe dunque un’opera psichedelica, in cui i protagonisti raggiungono nuovi strati del subconscio, allargando la loro propria coscienza.
A prescindere da tali sovrastrutture da Dramaturg, l’allestimento che inaugura la stagione bolognese ha un fascino che risiede soprattutto nelle scenografie del già menzionato Polzin, artista tedesco di fama internazionale. Si tratta di vere e proprie installazioni di arte contemporanea, valorizzate dalle ricche e pregnanti luci di John Torres, qui riprese da Kate Bashore. Nel primo atto troviamo una scena sbarrata da un grande specchio che riflette i personaggi e la sala del Bibbiena sprofondata nel buio, mentre dall’alto calano lentamente delle stalattiti che assomigliano vagamente alle opere del brasiliano Ernesto Neto. Tutti i classici elementi scenici sono banditi, quindi non si vede nessuno scrigno o coppa, ma solo i personaggi che si muovono in questo strano ambiente con una recitazione stilizzata alla Bob Wilson. Al momento rivelatore della bevuta del filtro, i due protagonisti si ritrovano, sul culmine del Tristan Akkord, a toccarsi le mani sopra una delle stalattiti, mentre intorno a loro cambia tutta l’impostazione luminosa, simbolo dell’alterazione di coscienza a cui essi approdano.
La passione che da quel momento li attanaglia prende forma nella grande scultura che domina la scena nel secondo atto: un groviglio di forme che assomiglia alle radici delle mangrovie o a una serie di corpi legati tra loro in pose atletiche. Lungo tutto il duetto d’amore, gli amanti si abbandonano, si arrampicano e si immergono in questa forma non definita. Al momento dello scoprimento da parte di Melot e del Re, solo Tristan ne esce, per rientrarvi poi quando viene colpito a morte dall’amico. Da qui, il lamento a Kareol si svolge in una asettica scena vuota dominata da una parete forata in vari punti e riquadrata da un enorme neon: il colore trasfigura dal bianco al rosso durante l’atto, fino al finale in cui Isolde viene lasciata sola tra i corpi esanimi dei personaggi morti fino a quel momento.
La vicenda è così collocata totalmente fuori dal tempo, come si evince anche dai suggestivi abiti firmati da Wojciech Dziedzic, in una messa in scena fortemente concettuale. Anche se alcune scelte registiche possono lasciare spiazzati, la realizzazione è condotta con coerenza e proprietà tecniche adeguate, in un susseguirsi di immagini accattivanti.
Dal punto di vista musicale, convince sicuramente la prova sul podio di Juraj Valčuha, che torna a Bologna dopo la Salome della scorsa stagione. Il maestro slovacco realizza una direzione fortemente narrativa, ma allo stesso tempo distaccata, come se non volesse essere coinvolto nella passione di cui sono pervasi gli eventi trattati. I tempi ben calibrati, con una tendenza alla speditezza, lasciano comunque spazio per assaporare la ricchezza della partitura wagneriana, senza che ciò diventi elemento retorico fine a se stesso. Valčuha dialoga poi in modo esemplare col palcoscenico, sempre in sintonia con gli interpreti, e tiene egregiamente le redini dell’Orchestra del Teatro Comunale, che dimostra di essere in ottima forma, seguendo il direttore senza particolari errori o cedimenti.
Valido il cast, a partire dalla Isolde di Ann Petersen. La voce del soprano danese, connotata da un timbro leggermente metallico, ben risuona nella sala del Comunale. Anche se la linea non risulta sempre omogenea, soprattutto nei passaggi di registro, gli acuti sono delle lame d’acciaio e i centri saldi le permettono di tornire con precisione le frasi. Il Liebestod non sarà memorabile, ma la Petersen porta a casa comunque il ruolo, costruendo un personaggio credibile e dimostrando una discreta saldezza di mezzi.
Stefan Vinke viene a capo della mostruosa parte di Tristan, arrivando alla fine senza particolari segni di cedimento. Lo strumento è piuttosto ampio e si segnala per il gradevole timbro baritonaleggiante. Vinke dimostra di avere tutte le note del ruolo, ma anche di sapergli dare un senso: accenta e fraseggia dunque con consapevolezza e decisione, piegando l’emissione anche a sfumature pregevoli. Albert Dohmen risulta a suo perfetto agio nella parte di Re Marke, esibendo una voce ampia e scura che sa piegarsi a tutte le caratteristiche malinconiche del personaggio, a cui è affidato un lunghissimo monologo del secondo atto. Per quanto ben centrato, il vero momento di punta dell’interpretazione di Dohmen è la rassegnazione dolentissima di cui sono caricate le ultime battute del terzo atto “Tot den alles! Alles tot!”.
Ekaterina Gubanova è una Brangäne dagli ampi mezzi: dimostra invidiabile sicurezza nel temibile “Wehe! Weh!” che conclude il primo atto, e non denota problemi nemmeno quando la scrittura gravita sul registro medio-basso, valorizzato da un suadente timbro scuro. Difetta leggermente in espressività, ma è anche vero che la regia l’aiuta poco, data l’astratta impostazione recitativa. Martin Gantner nei panni di Kurwenal offre una prestazione in crescendo che trova il suo culmine nell’ultimo atto quando il gioco di colori e fraseggio, unitamente a un considerevole volume, dimostrano la giusta aderenza al personaggio. Tommaso Caramia dà il giusto risalto al ruolo di Melot, mentre Klodjan Kaçani si destreggia ottimamente sia nel ruolo del giovane marinaio malinconico, dove esibisce una voce di bella grana, sia come pastore. Inappuntabili risultano anche i brevi interventi del coro preparato da Alberto Malazzi.
La prima, apertasi con gli omaggi al cavaliere e mecenate Marino Golinelli, presente in sala, si conclude in trionfo. Il pubblico dimostra di apprezzare lo spettacolo e tributa grandi applausi a tutti gli interpreti e ai realizzatori dell’allestimento, riservando vere e proprie ovazioni a Valčuha.
Teatro Comunale – Stagione lirica 2020
TRISTAN UND ISOLDE
Dramma musicale in tre atti
Musica e libretto di Richard Wagner
Tristan Stefan Vinke
König Marke Albert Dohmen
Isolde Ann Petersen
Kurwenal Martin Gantner
Brangäne Ekaterina Gubanova
Melot/Ein Steuermann Tommaso Caramia
Ein Hirt/Ein junger Seemann Klodjan Kaçani
Orchestra, coro e tecnici del Teatro Comunale di Bologna
Direttore Juraj Valčuha
Maestro del coro Alberto Malazzi
Ideazione artistica Ralf Pleger & Alexander Polzin
Regia Ralf Pleger
Scene Alexander Polzin
Costumi Wojchech Dziedzic
Luci John Torres
Luci riprese da Kate Bashore
Coreografia Fernando Melo
Con la collaborazione di Leggere Strutture Art Factory
Nuova produzione del Teatro Comunale di Bologna con La Monnaie/Munt
Bologna, 24 gennaio 2020