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Vicenza Opera Festival 2019 – La favola d’Orfeo

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Va in scena in uno dei luoghi più idonei alla sua realizzazione, il Teatro Olimpico di Vicenza, La favola d’Orfeo di Claudio Monteverdi, o meglio: di Monteverdi e Iván Fischer; non tutta la musica che si ascolta in questa versione, infatti, appartiene all’opera monteverdiana. Il direttore artistico e musicale del Vicenza Opera Festival ha tentato di ricostruire il finale dionisiaco originario componendone di suo pugno le musiche, rifacendosi allo stile monteverdiano e basandosi sul libretto della prima recita della Favola di Orfeo al Palazzo Ducale di Mantova nel 1607. Il secondo finale, quello apollineo stampato nella partitura del 1609, è l’unico giunto ai nostri giorni e quindi normalmente eseguito, mentre della musica del primo si è persa completamente traccia.

Fatta questa necessaria premessa, l’Orfeo all’Olimpico è, dal punto di vista musicale, una buona resa del primo capolavoro nella storia dell’opera – beninteso: non la prima opera in assoluto in ordine cronologico – anche se l’Olimpico se ne sta lì, nella sua serenissima quiete, apparentemente ignorato ed estraneo al dramma. La prima impressione che si riceve è che non si voglia ritardare eccessivamente la cena al compassato pubblico vicentino; lo spettacolo pertanto inizia alle 19:30 per terminare alle 21:20, in tempo per l’ultimo turno al ristorante. E tutto o quasi viene dipanato in fretta e furia, un numero musicale dopo l’altro, un’infilata di brani che si susseguono automaticamente come in una playlist gestita da un programma di streaming musicale.
Il cast si rivela comunque pienamente all’altezza, a cominciare dall’ensemble orchestrale. Originale e apprezzabile la scelta di far iniziare la fanfara con percussioni e flauto dolce solo; l’effetto che si riceve è quello, affatto suggestivo, di trovarsi attorno al campo di Marte all’inizio di un torneo, i cavalli che si radunano e la banda che incede dal fondo. Un plauso particolare va al primo flautista, che si produce in diminuzioni di grande virtuosismo con una quantità di flauti di estensioni diverse nel corso di tutta l’opera.

La Musica fa il suo ingresso nella persona di Emőke Baráth, che interpreterà anche Euridice. Baráth dà subito prova di una voce perfettamente centrata, ottima dizione e capacità espressiva. Manca una convincente caratterizzazione musicale delle numerose strofe (a parte la quasi obbligata ultima), cosa su cui alcuni direttori sanno prodursi in autentiche perle di finezza orchestrale. L’Orfeo di Valerio Contaldo è vocalmente ineccepibile: un timbro tanto ricco e tornito da risultare pieno e corposo in tutti i registri e in un ampio spettro dinamico, agile e preciso senza mancare di intenzione e poesia, con momenti di autentica drammaticità, soprattutto nel disperato “Rendetemi il mio ben”, gridato senza urlare alla fine del terzo atto. “Rosa del ciel”, interpretata con massima cura e tenerezza autentica da Contaldo, arriva e se ne va come un tram alla fermata; come in troppi altri momenti, manca del collante drammaturgico tra i brani, o quantomeno la sensibilità di iniziare e concludere con il giusto respiro, poeticamente.
Il personaggio Orfeo risulta forse imbrigliato in una regia che non brilla per profondità e lettura del dramma, ma, a questo punto, è un problema esteso a tutti i personaggi principali, con la sola eccezione della Messaggera. Luciana Mancini, che la interpreta, sa ricavarsi un momento da attrice tragica dotata di una voce grave e austera, tutt’uno con un’intenzione drammatica che riesce nel difficile intento di coinvolgere l’ascoltatore nel messaggio luttuoso che reca.
Tornando all’aspetto musicale (l’unico davvero fondamentale, almeno in Orfeo), giunge a essere fastidiosa la presenza delle percussioni nel primo atto. Se queste risultano del tutto appropriate nella fanfara e gradite negli ultimi ritornelli di Musica, appare decisamente fuori luogo l’uso continuo di campanelli nel soave coro di ninfe e pastori “Vieni imeneo”.

Fa riflettere il passaggio tra secondo e terzo atto: si abbassano le luci, si oscura il suono grazie al coro di tromboni semplicemente perfetto e il corpo di ballo inizia un complesso cambio scena a vista, con tanto di scopettoni per rimuovere il tappeto erboso su cui si svolgono i primi due atti e scoprire l’efficace piattaforma lucida che costituirà lo Stige. La cosa procede con ordine e silenzio; lo straniamento è totale e un tantino brusco, ma la mente reagisce e l’emisfero sinistro rammenta Brecht, mentre il destro vola a Venezia nel tardo Cinquecento, con un giovane Monteverdi immerso nell’ascolto delle canzoni dei Gabrieli in Basilica. Con qualche perplessità ci si trova nel terzo atto, un palcoscenico del tutto diverso.
Antonio Abete è dotato del physique du rôle di Caronte. Cavernosi tanto la voce quanto lo sguardo, statuario il giusto per incutere la soggezione che si deve al nocchiero degli inferi inserito in una improbabile barchetta opalescente, cui ci si abitua presto grazie alla sua convincente interpretazione. Splendida la voce di Núria Rial, Proserpina un po’ troppo civettuola ma del tutto efficace; molto buono il breve intervento di Peter Harvey, baritono stentoreo, nel ruolo di Plutone. Da ricordare anche i validi contributi di Michal Czerniawsky, Cyril Auvity e Francisco Fernández-Rueda nei panni dei pastori. Magnifico il madrigale in chiusura del quarto atto: coro maschile ed ensemble di tromboni in quel grave stile marciano tanto ricco di suggestione.

Il finale composto da Fischer appare a tratti come un pastiche monteverdiano, operazione opinabile che non si può non definire quantomeno coraggiosa. La regia finalmente si mostra propositiva e osa nella rappresentazione di un Bacco inizialmente giovane ed efebico, il quale in seguito indossa zampe caprine e un abnorme fallo in erezione, per poi parodiare – in maniera spassosa grazie a una mimica notevole – la Nascita di Venere di Botticelli, corredato di parrucca bionda e seno finto. Non sarà il trionfo del buon gusto, ma per una volta si compie un piccolo passo oltre il didascalico. Si preferisce sorvolare sul dettaglio dei costumi, che fanno di questo Orfeo una rievocazione di Woodstock in stile peplum.

Vicenza Opera Festival 2019
LA FAVOLA D’ORFEO
Libretto di Alessandro Striggio
Musica di Claudio Monteverdi, completata da Iván Fischer

Euridice / La Musica Emőke Baráth
Orfeo Valerio Contaldo
Primo Pastore / Speranza Michal Czerniawsky
Secondo Pastore / Primo Spirito Cyril Auvity
Terzo Pastore / Secondo Spirito Francisco Fernández-Rueda
Pastore / Plutone Peter Harvey
Ninfa / Proserpina / Baccante Nuria Rial
La Messagiera / Baccante Luciana Mancini
Caronte / Terzo Spirito Antonio Abete

Budapest Festival Orchestra
Coro e Ensemble di danza della Iván Fischer Opera Company
Direttore Iván Fisher
Direttore del coro Soma Dinyés
Regia Iván Fisher
Scene Andrea Tocchio
Costumi Anna Biagiotti
Lighting designer Tamás Bányai
Coreografia Sigfrid T’Hooft
Produzione della Iván Fisher Opera Company,
già una coproduzione tra la Budapest Festival Orchestra
e il Palazzo delle Arti di Budapest, Vicenza Opera Festival,
Grand Theatre de Genève

Vicenza, Teatro Olimpico, 24 ottobre 2019

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