Ha senso riproporre il teatro musicale del primo Settecento senza quel modo di fruirlo? Domanda provocatoria, che forse può giustificare l’assenza di un’opinione precisa su questa Dorilla in Tempe presentata dalla Fenice al Teatro Malibran. Ti è piaciuta? Non è facile rispondere e ci si permette di cercare altre risposte oltre al sì e al no.
Anzitutto Dorilla, nella versione che ci è pervenuta, non è un lavoro drammaturgico concepito da capo a fine da un autore: si tratta di un pasticcio, di un collage di arie più o meno alla moda messo insieme da Antonio Vivaldi, autore dei cori, forse dei recitativi (incombenza da garzone, spesso demandata ai compositori in erba per farsi le ossa) e di quattro arie su diciotto. È autore della sinfonia, quei tre brevi tempi – i primi due dei quali riutilizza per Farnace, mentre l’ultimo è l’irriducibile incipit della Primavera. Non è autore, Vivaldi, dei brevi preludi agli altri due atti, che Diego Fasolis vuol idealmente collegare riproponendo gli incipit delle rimanenti tre stagioni, scelta didascalica, se si vuole kitsch, ma imperdonabilmente falsa. Allinearsi al kitsch ricercato di un insieme coerente di musica e regia è scelta stilistica; che si decida di ingannare l’ascoltatore meno informato è un falso storico, per quanto accuratamente in linea con scenografie e luci.
Chi scrive ha nelle orecchie l’esperimento vivaldiano del 2018, quell’Orlando furioso dagli archi così intensamente romantici; in questo secondo appuntamento con il Prete Rosso, l’orchestra compie un salto di qualità notevole e sa dar vita a una sonorità agile e leggera, persino un po’ grezza quando occorre, in cui i pochi archi rammentano le ristrettezze in cui versavano gli organici settecenteschi, i corni naturali sporcano il giusto nei loro rari attacchi e l’unica dulciana borbotta per non essere ancora un moderno fagotto. Il basso continuo discreto e creativo al contempo risulta ben calibrato, bizzarro quando se lo può permettere, capace di conferire un minimo di caratterizzazione ai personaggi nel corso dei recitativi. Anche il coro, curato da Claudio Marino Moretti, si destreggia con maestria negli intricati merletti della melodia vivaldiana, e a stento si direbbe lo stesso coro che sa far sussultare il teatro interpretando Verdi con potenza terribile e sussurri agghiaccianti.
Tornando alla domanda iniziale, risulta difficile proporre un simile prodotto ai giorni nostri, con il buio in sala, i vicini che – giustamente – sgomitano e sbuffano alla prima chiacchiera, in cui è socialmente riprovevole fare del palchetto pagato profumatamente il proprio salottino, senza poter entrare e uscire a piacimento e ritornare in una delle numerosissime repliche a sentire magari un solo atto, le arie preferite, applaudire il virtuoso preferito o fischiare quello antipatico. Insomma: il teatro all’epoca di Vivaldi era ben altra cosa, e Dorilla risente particolarmente della sua natura.
Le scene di Massimo Checchetto e i costumi di Giuseppe Palella creano un onirico e contemporaneo rococò con il suo neo-neo-neoclassicismo latteo e con scenotecnica dichiarata sul palco: aste, corde e tiranti a vista, inservienti abbigliati da chirurghi-ninja, teneri e veniali incidenti. La Fattoria Vittadini assolve con leggerezza ed eleganza al compito tecnico che le viene assegnato, conferendo grazie ai suoi ballerini un certo dinamismo a un’azione drammatica esile e spesso sospesa nel corso delle arie. Apprezzabili, nella regia di Fabio Ceresa, tanto i riferimenti a episodi mitologici (Dafne e Marsia tra gli altri), quanto la vena ironica che attraversa l’intera opera, indispensabile per rendere digeribile un prodotto teatrale di per sé polveroso; a questo proposito spetta un plauso al tentativo di Fasolis, spesso messo a segno, di evitare schematicità e meccanicità nell’ordinatissimo alternarsi di recitativi e arie.
Il cast vocale nel suo insieme è buono: Manuela Custer è pienamente a suo agio nei panni di Dorilla, ruolo che richiede un contralto che sappia spingersi nelle regioni più acute della sua tessitura. In Vivaldi Lucia Cirillo, Elmiro, si trova nel suo elemento e sa mettere a frutto il dono di una voce al contempo agile e ricca, lieve e pastosa. Qualcosa di simile si può dire anche per il Nomio-Apollo di Véronique Valdès, dotata di una sonorità scura perfetta per la connotazione androgina del personaggio. Volitiva e femme-fatale di aspetto già preraffaellita è l’Eudamia di Valeria Girardello, splendido timbro di contralto dall’imponente presenza scenica e notevole plasticità; i più bei tableau vivant che impreziosiscono gli inizi d’atto sono quelli che la vedono protagonista. Con timbro chiaro e articolazione precisa, Rosa Bove veste efficacemente i panni di un minuto Filindo. Prova ampiamente superata anche per l’unica voce maschile – quella di Michele Patti nel ruolo di Admeto – che sa sfoggiare anche un’arguta verve comica.
In sintesi: un’opera da cui non attendersi nulla dal punto di vista drammatico, poiché non rientra nella sua natura. Nel teatro musicale di quest’epoca – riproposto anche con coraggioso intento documentario – si ricerca un certo sfavillìo musicale, virtuosismo vocale, divertimento ed evasione, cose che non mancano al Malibran.
Teatro Malibran – Stagione del Teatro La Fenice 2018/19
DORILLA IN TEMPE
Melodramma eroico-pastorale in tre atti
su libretto di Antonio Maria Lucchini
Musica di di Antonio Vivaldi
Dorilla Manuela Custer
Elmiro Lucia Cirillo
Admeto Michele Patti
Nomio Véronique Valdès
Eudamia Valeria Girardello
Filindo Rosa Bove
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
Direttore Diego Fasolis
Maestro del coro Claudio Marino Moretti
Regia Fabio Ceresa
Scene Massimo Checchetto
Costumi Giuseppe Palella
Light designer Fabio Barettin
Assistente alla regia e coreografo Mattia Agatiello
Ballerini Fattoria Vittadini
Nuovo allestimento Fondazione Teatro La Fenice
Venezia, 27 aprile 2019