Ritorna con buon successo al Teatro La Fenice l’allestimento di Otello ideato da Francesco Micheli per l’inaugurazione della stagione 2012/13. Come allora, il motore espressivo sul versante musicale è la direzione di Myung-Whun Chung, che propone ancora una volta una lettura di grande impatto e tutta giocata sui contrasti. Il maestro coreano inquadra l’ambiente, le diverse situazioni sceniche, l’atmosfera emotiva e psicologica dell’opera, restituendone con sapienza la drammatica declamazione melodica e il raffinato sinfonismo. Chung definisce con potenza il turbinio degli animi e scatena l’intensità del dramma, senza trascurare la liricità degli affetti e l’intimismo notturno della partitura. L’introduzione e l’accompagnamento del duetto d’amore sono intrisi di abbandono e lirismo, così come altri momenti vengono restituiti con i ripiegamenti e la malinconia necessari. Furori e dolcezze, affettuosità e veleni, eroismo e pietà e via elencando per coppie di contrasti: nessuna occasione viene sprecata in una regia orchestrale capace di assicurare tesa coesione e, allo stesso tempo, flessibilità narrativa. Quella che viene un po’ meno, rispetto all’edizione di sette anni fa, è la regia vocale: Chung sembra non intervenire granché nella concertazione con i cantanti, e ognuno in pratica fa quello che sa fare, senza inserirsi in un preciso disegno interpretativo.
Marco Berti possiede un materiale di partenza più che adeguato per affrontare la parte di Otello, e infatti si fa valere per il bel colore timbrico, il buon peso vocale e l’apprezzabile tenuta del registro acuto, che nella sala della Fenice squilla in modo quasi impressionante. Purtroppo, i tentativi di alleggerire e sfumare si traducono in emissioni laboriose e anche in sparsi slittamenti di intonazione. Ma a non convincere sono soprattutto la genericità del fraseggio, l’accento spesso forzato e una linea di canto carente di nobiltà: è un Otello vecchio stile e di stampo verista, quello di Berti, l’esatto opposto del personaggio di gusto moderno e civile che, senza scomodare storici interpreti, riusciva per esempio a tratteggiare Gregory Kunde nell’edizione del 2012.
La Desdemona di Carmela Remigio lascia a desiderare sul versante vocale per le sparse disomogeneità e qualche inflessione poco gradevole in zona medio-bassa: le cose vanno meglio in alto, ma non si può dire che la compattezza e la levigatezza dei suoni siano il suo punto di forza. A convincere sono soprattutto il temperamento drammatico e la forte personalità interpretativa, che la portano a creare un personaggio vibrante, tratteggiato con un mix efficace di dolcezza e volitività.
Dalibor Jenis è uno Jago disinvolto negli acuti e meno consistente nelle note gravi, più interessante nelle intenzioni interpretative che nei risultati vocali. Tuttavia, se la tecnica non è irreprensibile, il personaggio risulta giustamente introverso, a fior di labbra, insinuante.
Il resto del cast vede spiccare il Cassio di Matteo Mezzaro, corretto vocalmente, espressivo nel fraseggio, in regola con lo stile. Nei panni di Roderigo, giovane innamorato senza speranza di Desdemona, Antonello Ceron appare invece fuori ruolo. Efficaci i contributi di Mattia Denti, Lodovico, e Matteo Ferrara, Montano. Funzionale Elisabetta Martorana come Emilia. Eccellente il coro preparato da Claudio Marino Moretti e puntuali gli interventi dei Piccoli Cantori Veneziani diretti da Diana D’Alessio.
L’allestimento con la regia di Francesco Micheli e le scene di Edoardo Sanchi è impostato sui simbolismi e dominato da una grande volta celeste ispirata alle mappe stellari rinascimentali. Uno spazio cosmico e astratto, dove si distinguono le figure del Leone (emblema di Otello, oltre che della Serenissima), dell’Idra (Jago) e di Venere (Desdemona). Un parallelepipedo al centro della scena, ruotando su se stesso, accoglie di volta in volta ambienti diversi: la camera nuziale, un interno orientale, una cappella, un alloggio militare. Luoghi di potere o di intimità degli affetti. I costumi di Silvia Aymonino, per lo più bianchi, collocano l’ambientazione nel tardo Ottocento e in un contesto marcatamente militare e cameratesco. La regia, come accennato, procede per simbolismi e propone anche in questa ripresa soluzioni che possono piacere o meno, come l’ondeggiare dei modellini di nave tenuti in mano dai coristi nel primo atto, a trasmettere un senso di precarietà della condizione umana; oppure gli interventi dei mimi che visualizzano le angosce di Otello in “Dio! mi potevi scagliar”, o ancora l’idea (già utilizzata felicemente da Micheli nel Roméo et Juliette areniano) di far “resuscitare” alla fine i due protagonisti, che si incamminano abbracciati verso la volta celeste. L’unica novità è che il Moro di Venezia, questa volta, è bianco e non si fa ricorso alla tecnica del blackface. Scelta dettata non da motivazioni drammaturgiche (tant’è che Kunde a suo tempo era dipinto di nero), ma dall’ossessione americanoide per il politicamente corretto che si sta diffondendo con rapidità anche nei nostri teatri. Chissà se l’Aida fenicea del prossimo maggio sarà bianca o nera.
Teatro La Fenice – Stagione d’opera e balletto 2018/19
OTELLO
Dramma lirico in quattro atti
Libretto di Arrigo Boito
Musica di Giuseppe Verdi
Otello Marco Berti
Desdemona Carmela Remigio
Jago Dalibor Jenis
Cassio Matteo Mezzaro
Roderigo Antonello Ceron
Lodovico Mattia Denti
Montano Matteo Ferrara
Emilia Elisabetta Martorana
Orchestra e coro del Teatro La Fenice
Maestro del coro Claudio Marino Moretti
Piccoli Cantori Veneziani diretti da Diana D’Alessio
Direttore Myung-Whun Chung
Regia Francesco Micheli
Scene Edoardo Sanchi
Costumi Silvia Aymonino
Allestimento Fondazione Teatro La Fenice
Venezia, 22 marzo 2019