Prima di Mozart, almeno altri tredici compositori avevano musicato Il re pastore, scritto da Metastasio nel 1751. Su commissione dell’arcivescovo Colloredo, il diciannovenne Amadeus, alla sua decima opera, condensa in due i tre atti originari del libretto, creando in poco più di un mese una serenata celebrativa. L’occasione è offerta dalla visita dell’arciduca Massimiliano Francesco, figlio minore dell’imperatrice Maria Teresa e ospite a Salisburgo nell’aprile 1775.
Per gran parte dei musicologi si tratta di un lavoro gradevole ma privo di autentica ispirazione. Con l’eccezione, unanimemente riconosciuta, di “L’amerò, sarò costante”, l’aria di Aminta, con a solo di violino obbligato, considerata un esempio di sublime ispirazione lirica. I due mondi antitetici sottintesi nel titolo rispondono in effetti alla convenzionale tipologia narrativa delle opere celebrative (l’origine nobile che passa attraverso l’umiltà di una vita contadina è simbolo di rettitudine). Tuttavia, nell’accogliere la convenzione Mozart riesce in parte a trascenderla, sviando la componente accademica in direzione poetica. L’intreccio amoroso diventa occasione di belle arie, che al di là della circostanza politica danno vita ad “affetti” musicali straordinari. Il languore di Tamiri, la passione nobile di Agenore, o lo smarrimento di Elisa, trovano accenti toccanti, molto più suggestivi della regalità convenzionale di Alessandro il Grande. Freschezza di ispirazione melodica, luminosità di orchestrazione e varietà di timbri sono di fatto i pregi di quest’opera. In termini di drammaticità, invece, la caratterizzazione musicale non è particolarmente evoluta e la consistenza teatrale lascia a desiderare. Vero è che tutto ciò che è teatrale o realistico non serve in questo genere destinato all’illustrazione allegorica delle virtù di un principe. La musica del Re pastore, dunque, procede tra astratte geometrie e tocchi quasi metafisici, non conosce tensioni drammaturgiche.
Di questa peculiarità tiene conto l’allestimento ideato per il Teatro La Fenice da Alessio Pizzech, che crea luoghi d’azione emblematici. Pur senza precisi riferimenti temporali e spaziali, la mitica Arcadia evocata dal libretto di Metastasio viene attualizzata grazie alle scene di Davide Amadei e ai costumi di Carla Ricotti. L’ambiente idilliaco-campestre in cui vive il pastore Aminta è inteso come uno spazio dell’anima e per simboleggiarlo si è voluto attingere a una suggestione cinematografica: in scena campeggia la rievocazione del Magic Bus 142, il pullman abbandonato nell’Alaska divenuto famoso grazie al film di Sean Penn Into the Wilde, dove si racconta la storia di un ragazzo fuggito di casa alla ricerca di una vita avventurosa e a contatto con la natura. Solo che a differenza del giovane viaggiatore statunitense, Aminta qui non vive nelle terre selvagge dell’estremo nord-ovest americano, ma in un pietroso deserto mediorientale. Il pastore mozartiano, nell’ottica di Pizzech, diventa una sorta di eremita, un giovane che ha scelto una vita isolata, lontano dagli eventi della grande storia, e che abita felice in un vecchio autobus dismesso, all’interno del quale è cresciuto un albero verdeggiante. Quando Alessandro, re di Macedonia, verrà a cercarlo rivelandogli di essere l’erede legittimo del defunto re di Sidone, spodestato dal tiranno Stratone, Aminta sarà sradicato da quel contesto e, nel secondo atto, portato in un giardino dalle geometrie perfette e tuttavia insidioso: un labirinto di siepi in cui il pastore perde se stesso e la sua anima, fino a sentirsi prigioniero (evidente il richiamo a Shining di Kubrick). Il pullman viene smantellato e l’albero rinsecchisce, ma il lieto fine implicito nell’occasione celebrativa per cui nasce il lavoro mozartiano rimette tutte le cose a posto. L’albero rifiorisce, le due coppie di innamorati che erano entrate in crisi con la scoperta della vera identità di Aminta si ricompongono, mentre Alessandro, il sovrano illuminato, ha modo di dimostrare tutta la sua clemenza e magnanimità.
In questo quadro, Pizzech punta a una lettura che evita risvolti bozzettistici e oleografici per concentrarsi sui drammi esistenziali dei personaggi, sui conflitti fra le loro necessità intime e affettive e la visione politica di Alessandro: in altre parole, sul conflitto tra sfera pubblica e privata, fra politica e sentimenti. L’assunto viene spiegato in dettaglio da Pizzech nelle note di regia e poco importa se in scena non sempre si concretizzano con chiarezza riflessioni e idee elaborate a tavolino. Quello che conta davvero è che tutti recitano benissimo e danno vita a personaggi credibili: il dinamismo e la vivacità che circolano in palcoscenico sono tali da far dimenticare che questa serenata mozartiana è un lavoro in cui di fatto non succede nulla, essendo del tutto privo di una azione teatrale tradizionalmente intesa.
Considerato che l’opera non ha quasi pezzi d’insieme e si risolve in una sequela di recitativi e arie, bisogna riconoscere a Federico Maria Sardelli la capacità di evitare ogni rischio di monotonia. Sotto la sua direzione, l’Orchestra della Fenice suona con adeguata trasparenza e duttilità espressiva, specie nelle parti liriche e sognanti. Ritroviamo così tutti gli incanti e gli stupori del giovane Mozart ma anche, a partire dalla Sinfonia d’apertura, il senso del ritmo scattante e incisivo. È una lettura attenta ai chiaroscuri, a restituire la tavolozza dei colori musicali, e a sottolineare le sfumature decisive che definiscono certi cambi di atmosfera. Le sonorità sono ben calibrate e, oltre a offrire puntuale sostegno alle voci, hanno un impulso e un mordente teatrale in grado di far emergere le affinità con l’opera italiana coeva.
La compagnia di canto, formata da giovani interpreti, si attesta su un livello nel complesso decoroso. Tutti sono stilisticamente in regola, vari ed espressivi nei recitativi, ma a livello vocale – in un organico che prevede solo timbri chiari (tre soprani e due tenori) – emergono di più le interpreti femminili. Il ruolo del protagonista, scritto da Mozart per il castrato Tommaso Consoli, è sostenuto da Roberta Mameli. Nonostante qualche fissità e tensione nel settore acuto, il suo Aminta è convincente per il temperamento, la presenza scenica, il fraseggio analitico e il mordente della coloratura, oltre che per la toccante malinconia con cui cesella la perla dell’opera “L’amerò, sarò costante”.
Il fluire belcantistico e i palpiti espressivi che contrassegnano anche i ruoli di Tamiri ed Elisa sono restituiti credibilmente da Silvia Frigato (quella forse più fluida nelle agilità) ed Elisabeth Breuer. Nei panni regali di Alessandro, invece, Juan Francisco Gatell non si muove a suo perfetto agio: manca di precisione e disinvoltura nelle agilità e la voce non è sempre timbrata in basso. Certo è corretto nel registro medio-alto e si tratta pur sempre di un cantante apprezzabile e di un interprete sensibile, tuttavia resta la sensazione che lo stile eroico da opera seria settecentesca non sia nelle sue corde. Francisco Fernández Rueda, infine, è volenteroso e non più che funzionale nella parte di Agenore.
Alla prima, caldi applausi per tutti gli artefici della produzione.
Teatro La Fenice – Stagione lirica e balletto 2018/19
IL RE PASTORE
Dramma per musica in due atti KV 208
su libretto di Pietro Metastasio
Musica di Wolfgang Amadeus Mozart
Alessandro Magno Juan Francisco Gatell
Aminta Roberta Mameli
Elisa Elisabeth Breuer
Tamiri Silvia Frigato
Agenore Francisco Fernández-Rueda
Orchestra del Teatro La Fenice
Direttore Federico Maria Sardelli
Maestro al cembalo Roberta Paroletti
Violoncello continuo Alessandro Zanardi
Regia Alessio Pizzech
Scene Davide Amadei
Costumi Carla Ricotti
Light designer Claudio Schmid
Nuovo allestimento Fondazione Teatro La Fenice
Venezia, 15 febbraio 2019