L’acqua alta, anche se ha rallentato le prove del Don Carlo di Giuseppe Verdi, non ha fermato l’inaugurazione della stagione della Fenice. Grazie alla collaborazione di tutte le forze del Teatro e della città di Venezia, gli impianti e i dispositivi danneggiati dall’alluvione sono stati in gran parte recuperati. La Fenice dopo essere risorta dal fuoco del 1996 è dunque felicemente riemersa dalle acque. Curiosamente, come per la Traviata nata dopo l’incendio, anche per questo Don Carlo la regia ha visto impegnato Robert Carsen. L’opera mancava dalla Fenice da circa trent’anni e c’era comunque molta attesa anche per l’allestimento che, non nuovo perché proveniente da Strasburgo ed Essen, incuriosiva per alcune soluzioni “originali”.
È stata scelta la versione italiana in quattro atti, presentata per la prima volta alla Scala nel 1884. Dei tanti temi che Verdi propone (la passione amorosa, la ragion di Stato, la solitudine dei potenti, l’amicizia), Carsen mette in evidenza il contrasto religioso e politico tra la Spagna cattolica e le Fiandre protestanti. Nel regno di Filippo II tutto è tetro e oscuro. Il sovrano nella scena dell’autodafé, con il rogo anche di libri, indossa una tiara-corona. Scuri sono anche gli austeri costumi firmati da Petra Reinhardt, senza precise connotazioni temporali. Carlo, il figlio di Filippo, si muove incerto come fosse una sorta di Amleto con tanto di teschio. La scena del Don Carlo, ideata da Radu Boruzescu, è profonda, grigio scura, costruita su due piani. Il montaggio alla Fenice è stato un lavoro molto impegnativo, fortunatamente svoltosi prima della grande acqua alta. Per incastrare la struttura, fatta di ferro, sono state svuotate le torri del boccascena. Di fatto, ci troviamo di fronte a una sorta d’interno di un convento-carcere in cui si muovono preti e suore. Lo stesso Filippo II si presenta come un papa vestito di nero. La Chiesa ha un ruolo pesante ed estremamente oppressivo. Tutto sorveglia, controlla e corrompe, fino al punto di distruggere la sincera amicizia (che Verdi invece rimarca con un ricorrente tema musicale) tra Carlo e il marchese di Posa. Quest’ultimo nell’invenzione registica si allea con il Grande Inquisitore e finge di morire, per diventare il successore di Filippo II, che nel quarto atto di questo nuovo thriller viene ucciso assieme al figlio. Se il libretto utilizzato da Verdi non ha valore storico, la sua musica, però, ha una regia e una drammaturgia fissate nelle note della partitura. Ogni altra trama e ogni altro finale diventano facilmente posticci e semplice gioco visivo, perché vengono a mancare quella pregnanza psicologica e quella “verità” create dal testo e dalla musica. Tanto vale, rinunciando all’aspetto provocatorio della dissacrazione che oramai non crea più meraviglia, commissionare un’opera nuova. Personalmente, troviamo molto più stimolante l’individuazione e la sottolineatura di aspetti apparentemente marginali o nascosti di un lavoro, nuove chiavi di lettura che partano, però, da quanto scritto. Certo, comprendiamo che è più facile raccontare un’altra storia. In altre produzioni, dunque, Carsen è stato più convincente e ricco d’idee. Si pensi, per esempio, al potere distruttivo e ossessivo del denaro nella sua Traviata che trova una coerenza narrativa di grande efficacia.
Musicalmente, il direttore coreano Myung-Whun Chung è sempre una garanzia per quanto riguarda il rigore esecutivo e l’attenzione al segno verdiano. Questa volta, tuttavia, specie nella seconda parte dell’opera, la concertazione non è sempre apparsa così accurata e sottile. La mancanza di alcune prove, nei giorni in cui la Fenice non era agibile, ha sicuramente svantaggiato la resa complessiva.
Tra gli interpreti la voce più verdiana, per peso e solidità, è quella del baritono Julian Kim, un marchese di Posa in primo piano anche per il risalto offertogli dalla regia. Nel ruolo del titolo, Piero Pretti ha un timbro pulito, da tenore lirico puro. Sarà alquanto curioso riascoltarlo prossimamente alla Fenice quale Radamès. Filippo II richiede una presenza scenica e un’autorevolezza che al momento non abbiamo ancora riscontrato nel pur bravo Alex Esposito. Il Grande Inquisitore, Marco Spotti, l’altra sera non aveva la tenebrosità e l’incisività che la parte richiede e non è stato convincente il frate di Leonard Bernad.
Le due voci femminili principali, Maria Agresta (Elisabetta di Valois) e Veronica Simeoni (Eboli) ci son parse timbricamente troppo affini. Nello specifico, la Agresta alterna pianissimi manierati e suoni un po’ aggressivi, mentre la Simeoni, che pur abbiamo apprezzato in altri ruoli, qui ha una voce piuttosto chiara e gli acuti tendono a perdere di brillantezza. Pregevole la prova del coro preparato da Claudio Marino Moretti.
Molto caloroso il successo di pubblico per Chung e i cantanti; qualche isolato dissenso per il regista.
Teatro La Fenice – Lirica e balletto 2019/20
DON CARLO
Opera in quattro atti
Libretto di Joseph Méry e Camille Du Locle,
traduzione italiana di Achille De Lauzières e Angelo Zanardini
Musica di Giuseppe Verdi
Filippo II Alex Esposito
Don Carlo Piero Pretti
Rodrigo Julian Kim
Il Grande Inquisitore Marco Spotti
Un Frate Leonard Bernad
Elisabetta di Valois Maria Agresta
La Principessa Eboli Veronica Simeoni
Tebaldo Barbara Massaro
Il Conte di Lerma Luca Casalin
Un Araldo Reale Matteo Roma
Una voce dal cielo Gilda Fiume
Orchestra e coro del Teatro La Fenice
Direttore Myung-Whun Chung
Maestro del coro Claudio Marino Moretti
Regia Robert Carsen
Scene Radu Boruzescu
Costumi Petra Reinhardt
Light designer Robert Carsen e Peter Van Praet
Assistente alla regia e movimenti coreografici Marco Berriel
Venezia, 24 novembre 2019