L’edizione di Madama Butterfly di Giacomo Puccini in scena al Teatro Verdi di Trieste coglie bene, sia nell’allestimento che nell’esecuzione, i tratti più intimamente caratteristici della partitura: quell’oraziana callida iunctura che realizza l’originalità nel sapiente accostamento di ciò che di per sé nuovo non è. Così l’utilizzo da parte di Puccini di forme musicali e tecniche compositive note, ma con un approccio inconsueto, almeno del panorama musicale italiano di inizio secolo, trovano una raffinata trasposizione visiva nello spettacolo realizzato da Alberto Triola e Libero Stelluti, rispettivamente regia e aiuto regista, con le scene di Emanuele Geniuzzi con Stefano Zullo.
È un Giappone tradizionale, ma estremamente moderno nella purezza delle linee delle pareti mobili della “casa a soffietto” tenuamente dipinte, e nell’utilizzo degli spazi aperti e liberi. I bei costumi disegnati da Sara Marcucci rispecchiano questi tratti e anche i kimono rinunciano a policromie floreali, a favore di ricercate monocromie, riprese dalle ottime luci di Stefano Capra, calde come la veste rosso cupo di Cio Cio San all’inizio del secondo atto, bianche come l’abito di Sharpless durante la lettura della missiva di F.B. Pinkerton, gialle come il kimono del ricco Yamadori. È un’iconografia che affonda tutta nella tradizione, ma fa della rinuncia all’ovvio e al banale – al kitsch – la sua strada verso la modernità del gusto. Alberto Triola concepisce due colpi di teatro di grande efficacia e poesia. Alla fine di un primo atto – durante in quale lo Zio Bonzo fa irruzione dal fondo della platea, scortato da alcuni monaci che gli illuminano di cammino reggendo lampade giapponesi appese alle estremità di lunghe aste e dalla platea rinnega Butterfly, sancendo così fisicamente la distanza fra due mondi, due letture del reale e due vissuti della storia che non sono destinati ad incontrarsi – Butterfly e F.B. Pinkerton rimangono soli, in una scena assolutamente vuota e cupa come la notte che li circonda e in cui la protagonista si è trovata abbandonata. Sole alcune lampade restano posate a terra e quando gli occhi di quindicenne della protagonista, che nutre un sogno di amore, più che realmente innamorata, contemplano stelle che lei non ha mai vedute così belle, ecco che le lampade si librano nell’aria e altre ne scendono, tremolando come farfalle. Se questo bel finale gioca sulla suggestione che l’esplicitazione del testo porta con sé, quello concepito per il secondo atto è ancora più efficace perché segue puntigliosamente quel moto dell’anima e quel gesto scenico che Puccini ha magistralmente tradotto in musica. Dalle prime battute della preghiera di Suziki, assistiamo a una leggera pioggia di foglie d’acero rosso – il colore che domina tutto l’atto e che in una sorta di Ring Komposition chiude l’opera – sulla scena; ininterrotta sino al momento in cui, scacciati Yamadori, Goro, Sharpless, Butterfly e Suzuki odono il colpo di cannone del porto. In quell’istante, mentre dal golfo mistico risuona esitante il tema di “Un Bel dì vedremo” e le due donne perfettamente immobili scrutano l’orizzonte, le foglie restano sospese nell’aria, in una sorta di fermo immagine: tutta l’attenzione del pubblico è così proiettata sulla frase musicale e quel senso di attesa paurosa e speranzosa si fanno pregnanti e ingombranti quasi. Più in generale, si potrebbe dire che la lettura di Triola tende a isolare Butterfly in questa sua sospensione, nel passaggio fra il prima e un dopo che per lei non si concretizzerà mai. E quella frattura che la collocazione in uno spazio diverso dello zio Bonzo ha evidenziato, si riflette anche nella collocazione del figlio di Cio Cio San, che vediamo sempre separata dalla madre, un’ombra dietro a un paravento, deprivati entrambi di ogni contatto fisico, anche nel finale: anche se presente in quell’ultimo istante egli è altro, quasi una proiezione della protagonista. Così, quando Butterfly si suicida, sola sul fondo della scena, ombra nera dietro un velario rosso e cadendo rimane progressivamente schiacciata fra le quinte nere che la chiudono rapidamente in un campo visivo sempre più piccolo sino a farla scomparire alla nostra vista, rimane – quasi appare – in proscenio solo un ragazzetto vestito in abiti americani, in piedi fra delle foglie rosse che, improvvisamente portate dal vento, si alzano verso il cielo come farfalle.
Elegante, pulita, pregnante anche l’esecuzione musicale, il cui merito principale va all’ottima direzione di Nikša Bareza. I tempi staccati dal direttore croato sono piuttosto mossi, non indulge a languori estenuanti, estetizzanti: è una lettura che ha in sé l’intimo senso della tragedia incombente, l’anelito verso il sogno e che sa ritagliare ampi spazi di riflessione, tanto più significativi quanto maggiore sono i contrasti agogici. Nikša Bareza ha il raro pregio di tradurre l’analisi in sintesi, di ricondurre la ricchezza di dettagli, sonori, tematici, melodici entro un quadro chiarissimo e dalle rigorose proporzioni, attingendo a una gamma di colori ricchissima. L’Orchestra del Teatro Verdi lo asseconda e, guidata da mano sicura, suona – finalmente, in questa stagione – come ha dato prova in passato sapere fare: l’amalgama fra le diverse sezioni è raggiunto compiutamente in ogni gamma dinamica, il fraseggio vario, chiaro, naturale, il suono è pieno anche nei pianissimi, le note suonano tutte, pulite anche nei passaggi di scale discendenti e ascendenti del preludio al secondo quadro del secondo atto, ottimo l’equilibrio con il palcoscenico, dove è impegnato un cast costituito da voci molto interessanti.
Madama Butterfly è Liana Aleksanyan, dotata di una voce di lirico spinto dal bel timbro ambrata. Al centro parrebbe alquanto esile come strumento, ma il registro acuto è pieno e ha un gran volume. Deve fare attenzione a non cedere alla tentazione di spingere troppo, ma fraseggia bene e offre gli spunti più interessanti nei duetti e nelle parti di conversazione che nelle arie, dove – almeno alla prima – sembra perdere di vista l’architettura complessiva. Fedele tanto alla lettura di Bareza che di Triola, disegna una Butterfly in cui tragedia e sospensione convivono, senza che si compia quel passaggio da fanciullezza a età adulta che altre celebri versioni ci hanno consegnato; ciò non di meno è un personaggio compiuto, di grande interesse.
Piero Pretti riconferma l’ottima impressione lasciata dal suo Edgardo; resta il dubbio se il suo strumento corrisponda perfettamente alla scrittura di Pinkerton, ma canta con grande intelligenza senza mai forzare. Fraseggia con grande cura e anche le due arie da frivolo smargiasso nel primo atto ne guadagnano in nobiltà senza perdere in spavalderia. Intenso nel duetto e in “Addio, fiorito asil”, ha acuti squillanti ben proiettati e ricchezza di colori.
Molto applaudito dal pubblico, Stefano Meo non convince tuttavia pienamente nei panni di Sharpless: voce potente, cerca di piegarla a uno stile più intimo e conversativo con esiti ambigui tanto nell’emissione che nella resa degli elementi espressivi del dettato pucciniano. Laura Verrecchia è una Suzuki di lusso, dotata di un bel timbro scuro, che fa del suo personaggio l’alter ego di Butterfly, quella parte dell’Io consapevole che Butterfly cerca di rimuovere. Un’ottima prova, al pari di quella di Saverio Pugliese, un Goro incisivo, sarcastico, ben cantato e recitato senza intenti caricaturali. Pienamente positive anche le prove di Dario Giorgelè, Yamadori, Silvia Verzier, discreta ed elegante Kate, Giuliano Pelizon e Giovanni Palumbo rispettosamente Il commissario Imperiale e L’Ufficiale del registro.
Valido l’apporto del Coro del Teatro Verdi diretto da Francesca Tosi a cui è riservata la pagina più celebre forse dell’opera alla chiusa del primo quadro del secondo atto. Giustamente applauditissimo, sa trovare i giusti accenti nell’interpretazione di un brano tanto suggestivo quanto complesso, la cui resa non è scalfita da una lieve incertezza dei soprani sul Si bemolle finale.
Teatro Verdi – Stagione lirica 2018/19
MADAMA BUTTERFLY
Tragedia giapponese in tre atti su libretto di Luigi Illica e Giuseppe Giocosa
dal dramma Madame Butterfly di David Belasco
Musica di Giacomo Puccini
Cio-cio-San Liana Aleksanyan
F.B. Pinkerton Piero Pretti
Sharpless Stefano Meo
Suzuki Laura Verrecchia
Goro Saverio Pugliese
Il Principe Yamadori Dario Giorgelè
Lo Zio Bonzo Fulvio Valenti
Kate Pinkerton Silvia Verzier
Il commissario imperiale Giuliano Pelizon
L’ufficiale del registro Giovanni Palumbo
Mimo Annalisa Esposito
Orchestra e Coro della Fondazione Teatro Lirico Giuseppe Verdi di Trieste
Direttore Nikša Bareza
Maestro del coro Francesca Tosi
Regia Alberto Triola
Regista collaboratore Libero Stelluti
Scene Emanuele Genuizzi con Stefano Zullo
Costumi Sara Marcucci
Light designer Stefano Capra
Nuovo allestimento della Fondazione
Teatro Lirico Giuseppe Verdi di Trieste
Trieste, 12 aprile 2019