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Roma, Teatro Nazionale – Un romano a Marte

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Opera surreale e metamorfica nell’espressionistica vertigine che ritrae una città capitale con sottile disincanto e forza di sintesi fra i tagli di un tempo dalle lancette in cortocircuito e una pluralità di linguaggi saldamente radicati nella migliore neoavanguardia italiana, correndo per sessanta minuti con pari perfezione e tensione entro il nesso di parola-musica-immagine fra lirica ed elettronica, dolce vita e ribalta, nonsenso e metafora, finzione e realtà.
Al centro, suggestioni felliniane e paranoie esistenziali, visioni notturne e tramonti sul Tevere sorvolati da un’astronave extraterrestre in arrivo dal satellite Deimos, più un sottomondo che è miniera archeologica e regno di ciò che è morto nell’indifferenza e dal tempo sepolto, a partire dal clamoroso fiasco teatrale della commedia Un marziano a Roma di Ennio Flaiano, pièce a sua volta tratta da un racconto satirico-fantascientifico scritto dallo stesso autore nel 1954 quindi ripresa in film per la tv nel 1983, finita fra gli insulti al Lirico di Milano all’ormai storica prima del 23 novembre 1960, nonostante il calibro dei protagonisti in campo, Vittorio Gassman (nell’occasione anche regista) e Ilaria Occhini, scomparsa appena l’estate scorsa. Un flop deflagrante che scuote la psiche del pluripremiato drammaturgo e scrittore abruzzese attivo nella capitale, sceneggiatore per Fellini, giornalista, umorista e critico acuto di una realtà osservata a occhi attenti attraverso le sue spesse lenti a cornice scura e squadrata. Ed è così che lo vediamo in video, a grandi pennellate su fondo verde bottiglia, nel disegno per la prima scena dell’opera che, facendo leva librettistica sulla retorica della litote, ce ne scolpisce nel Prologo figura e coscienza, con voce elettronica fuori campo: “Ennio Flaiano, 1910, non è nato a Roma, non è stato un fascista della media ora, non è stato un antifascista dell’ultima, non proviene da una ricca famiglia borghese, non si è mai gloriato di essere un artista, […] non è stato comunista, non è stato un intellettuale inoffensivo, […] non è stato uno scrittore imitabile […]. Non è stato compreso perché non conveniva comprenderlo”. E così via, nel ritagliarne il messaggio che arriva dritto alle nostre menti, rimbalzando forte e chiaro quale fonte e fuoco d’ispirazione per il non meno ironico e surreale Un romano a Marte, penultimo lavoro – ma in ordine di rappresentazione creazione per il teatro musicale più recente – fra le quattro fin qui messe con pari successo a segno dall’oggi trentaquattrenne compositore Vittorio Montalti (a soli ventisei anni, si badi, Leone d’Argento per la Creatività alla Biennale di Venezia e, nel 2016, Premio “Una vita nella musica – giovani” ricevuto dal Teatro La Fenice), ancora una volta su idea e testo folgoranti di Giuliano Compagno, prestigiosa edizione per la storica Ricordi e in prima assoluta al Teatro Nazionale di Roma quale opera a giusto merito vincitrice nel 2015 del Premio di composizione su tema romano del Teatro dell’Opera.

Allestimento, dunque, appositamente prodotto dal Lirico capitolino con l’efficace regia di Fabio Cherstich e con l’intero pacchetto di scene, trucchi e costumi d’impronta neo-pop art alla Gotham City più i video di Luigi Toccafondo nel suo tipico stile coloristico e mutante, così come scolpito in una molteplicità di animazioni pittoriche e corti quali i celebri spot per la Sambuca Molinari, logo e sigla per la Fandango più materiali grafici per la stessa Opera di Roma. In buca mostrava intanto ottima forma l’Orchestra della Fondazione, nell’occasione diretta con grande intelligenza, puntualità metrica e sapienza di accenti dal sempre eccellente John Axelrod mentre, dalla postazione interna al fondo della sala, lo stesso Montalti realizzava dal vivo la parte elettronica, unitamente alla regia del suono curata dal bravo e giovanissimo Alberto Gatti.

Ribaltandone il titolo senz’altro a tutela dei diritti d’autore ma, anche, a valenza di specchio, quel genuino quanto inflessibile sguardo flaianeo che allontana una volta di più e per sempre i circuiti socio-culturali di Roma e Milano arriva in tal modo e con attualità pregnante al nostro tempo, rimodulandone dal podio come su schermo e palcoscenico le formule di straniamento e ironia, saturazione verbale e una retorica che strizza ampiamente l’occhio al teatro dell’assurdo, con tanto di marziano immaginario che scende in piena città fra gli umani e feedback critico parimenti trasformati nell’opera in personaggi in carne ed ossa, rispettivamente per il ruolo cantato di Kunt (il baritono Timofei Baranov) e per il ruolo recitante del Critico-historicus (Gabriele Portoghese), accanto alla protagonista Ilaria Occhini (il soprano Rafaela Albuquerque), a Ennio Flaiano in persona (il tenore Domingo Pellicola), a una coppia di mimi (Martha Festa e Jacopo Spampanato), oltre all’incisiva attrice Valeria Almerighi per dar forma silente e voce in chiusa alla martire romana Caterina Martinelli, madre che il 2 maggio 1944 fu uccisa nell’assalto ai forni nel quartiere tiburtino, ricordata recitando fuori campo e in romanesco i versi del poeta bulgaro Hristo Botev.

La forma dell’opera, in via analoga allo schema dei precedenti lavori teatrali di Vittorio Montalti (L’arte e la maniera di affrontare il proprio capo per chiedergli un aumento del 2013 per la Biennale di Venezia, Ehi Gio’. Vivere e sentire del grande Rossini varato nel 2016 al Teatro Lirico Sperimentale di Spoleto e l’apice in ultima battuta toccato con Le leggi fondamentali della stupidità umana commissionata dal Maggio Musicale Fiorentino, in prima assoluta lo scorso maggio al Teatro Goldoni), resta fedele alla compatta soluzione architettonica dell’atto unico articolato a mosaico (un Prologo e sedici scene sostanzialmente autonome) per un ristretto gruppo di cantanti con voce recitante, orchestra classica dall’ampia gamma di percussioni (immancabile in Montalti la batteria di padelle da cucina, la lastra del tuono, la scatola con piolini, una bottiglia in vetro, pietre kick-drum, hi-hat, spring-drum, crasher, brake-drums, oltre a marimba, timpani e gran cassa) più elettronica dal vivo con voce off, fondali costruiti ad arte per ogni quadro e un graffio electro-noise qui giocato come firma in apertura. Quattro titoli, a nostro giudizio, sufficientemente validi non solo a scolpirne il raro tandem di solidità e invenzione riconoscibile nella piena proprietà di scrittura sia vocale che orchestrale quanto, senz’altro, già decisivi nell’evidenziarne l’originale stacco nel medesimo ambito generazionale grazie all’ulteriore marcia di una propria cifra musicale dalla spiccata vocazione teatrale, così come ancora una volta confermato dalla raffinata confezione eufonica e dalla poliedrica dimensione ritmico-armonica dei suoi numeri chiusi in forma d’aria o in assieme, cesellati in punta di ricerca fra i meccanici tic e fonemi di ascendenza comica rossiniana evidenti nei ribattuti sillabati seguiti da ripide scalette cromatiche ascendenti o discendenti, salti intervallari o dinamici divaricati pur entro un’agevole comfort zone, l’esaltazione vocalica o consonantica in allitterazione ed anafora unitamente alla contestuale pluralità delle modalità di canto: nudo, sussurrato, soffiato, urlato, in recitativo intonato, parlato, cantillato, fino al lamento, spesso concertandone in frizione e a mo’ di sfida le disparità di emissione e scansione. Il piatto forte, pertanto, è negli assieme, qui duetti e terzetti, sia a condotta imitativa che omoritmica, quali il confronto brusco e precipitato fra Ilaria e Kunt al termine della prima scena, l’efficacissimo contrappunto a tre voci giocato sul ritmo con fondale jazz (lo stesso che accompagnerà Ennio nel suo sillabato “a solo” nella scena decima) in apertura della seconda e, in chiusura, l’onirico, bellissimo terzetto. Quindi, a seguire, il duetto maschile “sottovoce” nell’antico modo gregoriano alla scena quinta, il nervoso terzetto in declamato su padelle alla scena sesta e quello delicatamente cantillato alla tredicesima. Fino a chiudere sublimando in un unico respiro lamento, recitazione e suono fisso di una sirena come quella che risuona per tre minuti ogni anno in Bulgaria per ricordare il martire Botev, lungo il doppio cammeo neorealista posto a sigillo: il primo sul testo del poeta morto durante la rivolta del 1876 contro l’occupazione dei turchi, recitato dalla parimenti vittima Caterina Martinelli e, su piccolo schermo a parte nella scena ultima, l’inedito di un’intervista d’epoca con il racconto in prima persona del poeta e amico Tonino Guerra, intento a testimoniare l’umana tenerezza del Flaiano padre, con riserbo spiato guancia a guancia con la figlia malata in grembo.

Non meno pregevoli i pannelli strumentali: l’Introduzione che inquadra la prima scena, metà teatro e metà obitorio, con Flaiano già morto o ancora dormiente su una barella, quindi la discesa dall’alto del marziano Kunt, capelli alla Ken, vestito da supereroe nei colori del Comune di Roma e una K a bella mostra stampata sul petto. Di grande impatto, poi, l’incandescenza ritmico-timbrica del magma sonoro stretto agli estremi dai colpi di tutte le percussioni in campo, per segnare il transito epocale staccato alla scena settima: un vero e proprio portale sonoro dagli ingranaggi di fabbrica, con stridori ancestrali senz’altro memori dell’Elektra straussiana mentre la scena, fra le citazioni latine declamate da Ilaria tra vortici paronomastici, assume i contorni di un’area del delitto interdetta dalla scientifica. In sostanza, un sipario virtuale per staccare la fallimentare vicenda teatrale milanese e la trasformazione in epicentro politico di Roma per poi passare, alla quattordicesima, alla “Sala delle Parole perse”, dove nell’incomunicabilità fra Kunt ed Ennio a duetto scompaiono senso, narrazione e protagonisti fin qui in primo piano.
Infine, il controportale che vede ascendere al cielo non come da commedia e racconto il dimenticato marziano, bensì al suo posto Flaiano, quasi un novello Orfeo in salita simmetrica e con relative corrispondenze all’arrivo di Kunt, chiudendo in triplo piano e come a sublimare, al termine di un viaggio oltre finzione, il suono e la luce della parola vera.
Apprezzabili, nel complesso, le prove del Critico recitante e dei tre cantanti protagonisti selezionati dal progetto “Fabbrica” Young Artist Program del Teatro dell’Opera di Roma, con maggior lode per la scenicamente raffinata e vocalmente più convincente Ilaria di Rafaela Albuquerque.
Applausi calorosi per tutti al termine.

Teatro dell’Opera di Roma – Stagione lirica e balletto 2018/19
UN ROMANO A MARTE
Opera vincitrice del premio di composizione del Teatro dell’Opera di Roma
Prima rappresentazione assoluta
Libretto di Giuliano Compagno
Musica Vittorio Montalti

Ilaria Occhini Rafaela Albuquerque*
Ennio Flaiano Domingo Pellicola*
Kunt il Marziano Timofei Baranov*
Il Critico Gabriele Portoghese
Caterina Martinelli Valeria Almerighi
*dal progetto “Fabbrica” Young Artist Program del Teatro dell’Opera di Roma

Orchestra del Teatro dell’Opera di Roma
Direttore John Axelrod
Regia Fabio Cherstich
Scene, costumi e video Gianluigi Toccafondo
Luci Camilla Piccioni
Nuovo allestimento Teatro dell’Opera di Roma
Roma, Teatro Nazionale, 24 novembre 2019

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