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Pesaro, Rossini Opera Festival 2019 – Semiramide

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Tutto su mia madre. S’intitola Semiramide, il capolavoro di Gioachino Rossini con cui il Rossini Opera Festival di Pesaro è entrato nella maturità dei suoi primi quarant’anni; ma l’azione ruota intorno ad Arsace e al groviglio di sentimenti che lo unisce alla madre, nella – contestatissima – versione che Graham Vick ha presentato al pubblico marchigiano. Le intenzioni erano, probabilmente, le migliori: rinnovare i fasti della collaborazione con Michele Mariotti, che sei anni fa aveva portato a uno degli esiti più alti della storia del Festival, un Guillaume Tell politicamente impegnato, oltre che musicalmente impegnativo, tanto da restituire al testamento spirituale rossiniano una forza, un impatto drammatico di straordinaria complessità. E, forse, gli ingredienti erano al loro posto anche questa volta: ma la combinazione non ha sortito gli effetti desiderati, o almeno solo in parte.

A dare la misura di un lavoro magistrale, svolto con una profondità che di rado è dato cogliere, era già la Sinfonia d’apertura, suggellata da un’autentica ovazione: lasciando intendere non soltanto la consentaneità con il repertorio rossiniano, maturata da Mariotti in anni di assidue frequentazioni; ma anche il fatto che il direttore pesarese, nell’ultimo periodo, da Rossini è partito e, adesso, a Rossini è ritornato, forte di un’esperienza ottenuta grazie al confronto con l’Ottocento – segnatamente verdiano – e anche a un primo Novecento, di carattere più apertamente sperimentale. La sua lettura di Semiramide non sorprende per il carattere di assoluta integralità (135 minuti il primo atto, altri 100 il secondo) sacrificato sin dal debutto, auspicato ma mai interamente realizzato neanche dal compianto Alberto Zedda; piuttosto, l’estrema dilatazione formale fa di quest’opera il vero, inarrivabile punto di sintesi di una tradizione che raggiunge il massimo fulgore dopo il settennato partenopeo. Diventa – come accennava Bruno Cagli, alla memoria del quale è stata dedicata questa edizione della kermesse, insieme a Montserrat Caballé – il «paradiso perduto» di quel «canto d’espressione» che sarebbe stato travolto dalla rivoluzione romantica, e che non è né vuole essere mero artificio esornativo ma veicolo di affetti, sentimenti, passioni. Mariotti coglie tutto questo sin da una Sinfonia semplicemente memorabile, perché mette in luce gli elementi su cui è costruito il dramma: il carattere sacro dell’Andantino di corni e fagotto, forse la più suggestiva combinazione timbrica sviluppata dall’Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI, che si conferma compagine pregevole ma non sempre impeccabile nell’accompagnamento del canto; ma al tempo stesso seminando una sensazione di ansietà che esplode nella liberatoria grandeur militaresca del crescendo finale, quasi a voler certificare il carattere eroico di un dramma senza mezze misure né esclusione di colpi.

Da qui Mariotti sviluppa il respiro di Semiramide, un soffio inestinguibile che trae vigore segnatamente attraverso due espedienti, concorrenti e sovrapposti nell’arco delle due mirabolanti campate dell’opera. Il primo è il gioco delle dinamiche, che mai come in questa occasione vengono improvvisamente calmierate, condotte a un pianissimo impalpabile e sussurrato sin dall’Introduzione – in questo ottimamente assecondato dal Coro del Teatro Ventidio Basso di Ascoli Piceno, istruito da Giovanni Farina, compatto e monumentale nonostante il rischioso sforare del comparto tenorile – perché meglio possano deflagrare quando divampa la tragedia, segnatamente in un Finale I che è autentico tsunami emotivo, cui partecipa anche l’uso percussivo dei corpi delle comparse per esprimere il «terrore universale» che invade la scena. Gli interventi corali trapassano così dalla dimensione quasi ironica del gossip di corte («Belo si celebri, Belo si onori») sino a quella scura e angosciosa dell’intervento maschile del Finale ultimo. Ma merita una menzione anche il più banale degli accompagnamenti orchestrali, quegli staccati degli archi che diventano pulsazione sorda, vibrazione costante, fremito incontenibile durante le sezioni cantabili dei pezzi chiusi: sorta di sismografo destinato a tradurre l’ineffabile, dapprima nella grande Aria di Idreno del secondo atto, in cui pare si stia coronando un sogno d’amore a lungo perseguito; fino a un vertice semplicemente sublime, la ripresa dell’Andantino «Giorno d’orrore!… E di contento!…», nel Duetto tra Semiramide e Arsace, che Mariotti vuole mormorato a fior di labbro, lì dove il canto deve tradurre tutto e il contrario di tutto, l’illusione della speranza, la fragilità dell’amore, il dolore della perdita.
E allora Semiramide si staglia come un diamante purissimo, retaggio di quegli anni Venti in cui Rossini suggella la sua stagione italiana e da cui tutto sembra scaturire: la ricerca di una tinta orchestrale, che procede per improvvisate staffilate orchestrali, autentiche trafitture sonore («Qual mesto gemito») in cui la luce fende la notte di anime solitarie, in un’atmosfera cupa, notturna, caravaggesca; e la circolarità delle trame narrative musicali, quando nel Terzetto finale riecheggia uno dei temi del crescendo della Sinfonia, filtrato attraverso una luminosità metafisica che trova un corrispettivo unicamente nel Terzetto delle maschere del Don Giovanni di Mozart. La vendetta del Cielo, quando si compie per mano di Arsace, squaderna abissi insondabili, inesprimibili, oscuri.

Da qui, probabilmente, l’unità di intenti con lo sguardo inquieto di Graham Vick: a partire dall’unico elemento scenico previsto, la gigantografia degli occhi di un volto anziano, fissi sullo spettatore ma anche, prima di tutto, sui personaggi. È come se dallo scenografo, Stuart Nunn, giungesse l’invito a guardarsi dentro, a scrutare orizzonti inesplorati, ad affondare tra le pieghe, tra le piaghe di un passato che, mai come in questo caso, «accusa» il terzetto di protagonisti. Il boccascena – a strada e a corte – lascia intravedere frammenti di disegni dal tratto infantile, un sole che risplende, il volo di uccelli rossi di sangue; e proprio l’analisi dei traumi dell’infanzia è alla base dello scavo psicologico sul personaggio di Arsace, che non è più – come da tradizione – en travesti, ma esibisce tacchi a spillo e un fisico da amazzone guerriera. Sul verso dei due grandi pannelli, su cui campeggia lo sguardo che (in)segue l’intero spettacolo, una lavagna in cui l’incerta tecnica di un bambino sintetizza alcuni archetipi della storia del teatro di tutti i tempi, una donna con un pugnale insanguinato e un re ucciso: Oreste, Edipo e Amleto stanno a monte della vicenda, di un malessere esistenziale da cui sembra derivare un’identità gender fluid, destinata a riscrivere la storia. A voler seguire la versione dantesca, peraltro, Semiramide era amante lussuriosa («che libito fé licito in sua legge»), e dunque dopo le nozze politiche con Nino potrebbe essere plausibile una seconda unione, di segno contrastante.
Rinunciare alla convenzione tardo-settecentesca dei ruoli en travesti potrebbe essere intuizione plausibile, per rileggere il dramma secondo una prospettiva dichiaratamente contemporanea, che peraltro informa anche gli ingessati costumi, con le uniche eccezioni di quelli di Idreno e Azema, dal tratto boollywoodiano, e di Oroe e dei suoi seguaci, scaturiti da non si sa bene quale culto sciamanico perpetuatosi dall’antichità. Solo che questa interpretazione rimane tale e non viene sviluppata, nel corso dell’opera, né sembra arricchire la narrazione di ulteriori risvolti, rimanendo una provocazione irrisolta. Arsace, peraltro, non possiede l’ambiguo fascino androgino né dell’eroe wagneriano – per dirla con Nattiez – né delle icone alla Almodóvar: è una donna inserita in un girotondo alla Schnitzler, in una giostra dei sensi da cui, alla fine, è impossibile scendere, e che per questo precipita verso un baratro tanto prevedibile quanto privo della grandezza, tragica ed eroica, suggerita dalla drammaturgia rossiniana.
Di più. Se da un lato Vick accentua la centralità dei traumi privati di Arsace, dall’altro depotenzia la dimensione pubblica di Semiramide, donna manager in tailleur e collana di perle che si occupa di affari di stato, divorata dalla smania di regnare ma priva di carisma. E tutto questo si unisce ad almeno un altro bemolle dello spettacolo: e cioè il culto del bizzarro, se non dichiaratamente del brutto, che forse è funzionale a trasmettere quanto di laido e ripugnante si celi dietro la ricerca di un potere fine a se stesso; ma che si traduce in una serie di immagini visivamente poco accattivanti, se non ridondanti (l’inutile processione di sfere bianche per accompagnare il corteo nuziale di Azema) o francamente inutili (il coro che si tinge di non si sa quali tinte, prima del Finale).
Quanto sopra, evidentemente, nulla sottrae al lucido rigore con cui Vick persegue il suo obiettivo lungo tutto lo spettacolo: il cui punto più debole è forse l’onnipresente lettino del figlio scomparso di Semiramide, cui si accompagna un ciclopico orsacchiotto turchese, dalla simbologia tanto evidente quanto a lungo andare farsesca; mentre quello più riuscito è rappresentato dal primo quadro del secondo atto, un salotto da jet set internazionale in cui il confronto tra Semiramide e Assur diventa uno scontro rovente fatto di violenza, sesso e feticismo, in una visione del potere che si fonda sull’incandescente relazione tra i corpi e le loro più sotterranee, intime pulsioni. Ha ragione, il regista britannico, quando coglie il viluppo di tensioni, complessi e inquietudini che stanno alla base di Semiramide: ma se è coraggioso averli portati alla luce, altrettanto sarebbe stato importante andare fino in fondo, come altre volte ha dimostrato di saper fare.

La compagnia di canto complessivamente appare convincente, tanto per l’adesione allo scavo psicanalitico proposto in punto registico, quanto perché composta da cantanti a pieno titolo inscritti in una generazione che ha perfettamente assimilato tecnica, stile di canto, grammatica esecutiva ed espressiva della scrittura rossiniana. Tutti artisti solidissimi, anche se non memorabili, in grado di garantire una perfetta tenuta durante il corso della serata: a cominciare dai ruoli secondari, in cui si distinguevano l’Ombra di Nino di un tonante Sergey Artamonov, il compito Mitrane di Alessandro Luciano e la morbida, sensuale Azema di Martiniana Antonie.
Merita un cenno la distribuzione tanto dei ruoli maschili gravi quanto di quelli femminili. Partendo da una riflessione di Zedda («[…il ruolo] di Assur richiama la voce possente e duttile del baritono verdiano […]. All’opposto, il ruolo di Oroe […] richiama prepotentemente quello dei bassi profondi che danno voce ai ruoli di Zaccaria, Ramfis, Oroveso […]»), si è scelto infatti di ‘alleggerire’ la portata vocale del Principe di Belo, conferendo maggior spessore al Capo dei Magi. Sotto questo profilo, entrambe le scelte vocali sono perfettamente congrue: Carlo Cigni è un Oroe di spiccata autorevolezza, ancorché talora più rugoso nel registro acuto; come Nahuel Di Pierro incarna un Assur baritonale, dal colore più chiaro del consueto, investito da una fisicità prepotente soprattutto nella grande Scena e Aria del delirio del secondo atto. È una scelta, tuttavia, che non pare pienamente condivisibile, perché tende a rileggere la storia all’incontrario: non si può cantare Rossini a partire da Donizetti e Verdi, piuttosto il contrario. Viene meno, così, la coloritura del ‘basso cantante’, e la coloratura di forza, sostanzialmente corretta, raramente appare folgorante, come dovrebbe essere.
Anche le due protagoniste femminili sono state selezionate non già per differenziarne i timbri, bensì per favorirne l’amalgama. Salome Jicia inscrive il ruolo di Semiramide in una tipologia vocale ispirata alla prima interprete del ruolo, Isabella Colbran: ne privilegia il carattere scuro, brunito, vellutato. Sotto questo profilo, calza a pennello per una scelta artistica che sin dall’Introduzione – l’attacco del canone «(Fra tanti regi, e popoli», che forse per la prima volta emerge nella sua natura di a parte – ne delinea l’isolamento, la dolorosa solitudine esistenziale. Per questo eccelle nei Duetti: ora perché ritrova la tinta affettuosa di «Alle più care immagini», ora perché rende incandescente l’atmosfera di «Notte terribile! Notte di morte!», in cui pare prendere corpo il personaggio di Lady Macbeth. È, insomma, interprete inattaccabile e affidabile, cui forse manca ancora quel magnetismo indispensabile per affrontare la regina di Babilonia. Certo non è facile cantarla con una zazzeretta sale e pepe e l’allure del colletto bianco, ma la Cavatina avrebbe meritato ben altra, radiosa presenza vocale. Le è al fianco l’Arsace musicalissimo di Varduhi Abrahamyan, che l’uditorio saluta con entusiasmo sin dalla sortita. Qui vale invece il ragionamento inverso, perché si tratta di un mezzosoprano chiaro, sempre attenta a non scurire artificialmente la voce e a trasmettere una baldanza giovanile che sfocia in tenerezza, commozione, sensibilità. Sgrana con grandissima eleganza le fioriture, cui conferisce intenso senso compiuto: dopo aver scolpito il recitativo «Eccomi alfine in Babilonia», basti ascoltare il trillo con cui lo chiude («sull’ali dell’amore»), per cogliere tutta la voluttà e il candore giovanile della scoperta del sentimento. La fusione tra le due voci, nei due Duetti in cui sono accomunate, è di gran pregio: Mariotti ne potenzia l’ambigua carica erotica, in una ricerca di impasti timbrici di rara suggestione.
Non ci si stupirà se l’elemento di maggior valore appare l’eccellente Idreno di Antonino Siragusa, salutato da applausi trionfali. Certo non può contare su un timbro baciato dalla sorte, ma esibisce uno smalto e una precisione infallibile, che rendono le due arie Arie del Re dell’Indo, tanto impervie quanto drammaturgicamente inutili, un momento di puro incanto vocale. Sin dalla prima, peraltro, sbalza la linea di canto e la impreziosisce con puntature nel registro sovracuto, che si fanno vibrante testimonianza di una purezza, di una grandezza d’animo assente in tutti gli altri personaggi. E solo allora sembra schiudersi quel rimpianto dell’eden perduto, che di Semiramide è la cifra più compiuta: capace di stordire il dolore nell’ebbrezza del belcanto, per sublimare le passioni in un universo musicale di sfolgorante, abbagliante bellezza.

Adriatic Arena – Rossini Opera Festival – LX edizione
SEMIRAMIDE
Melodramma tragico in due atti di Gaetano Rossi
Musica di Gioachino Rossini
Edizione critica della Fondazione Rossini, in collaborazione con Casa Ricordi,
a cura di Philip Gossett e Alberto Zedda

Semiramide Salome Jicia
Arsace Varduhi Abrahamyan
Assur Nahuel Di Pierro
Idreno Antonino Siragusa
Azema Martiniana Antonie
Oroe Carlo Cigni
Mitrane Alessandro Luciano
L’ombra di Nino Sergey Artamonov

Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI
Coro del Teatro Ventidio Basso di Ascoli Piceno
Direttore Michele Mariotti
Maestro del coro Giovanni Farina
Regia Graham Vick
Scene e costumi Stuart Nunn
Luci Giuseppe Di Iorio
Nuova coproduzione con l’Opéra Royal de Wallonie – Liège
Pesaro, 11 agosto 2018

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