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Pesaro, Rossini Opera Festival 2019 – L’equivoco stravagante

Da uno sguardo all’altro. Da quello inquietante di Semiramide, che per l’intera durata dello spettacolo fissa personaggi e spettatori, a quello di una mucca, ben più arguto e malizioso, che campeggia dall’unico quadro appeso nella pretenziosa dimora di Gamberotto, spazio scenico per L’equivoco stravagante, terza e ultima produzione lirica del Rossini Opera Festival del quarantennale. È con questo bizzarro Segantini naïf, degno di uno zotico arricchito, che lo scenografo Christian Fenouillat connota l’esordio buffo del Pesarese, posto al centro di un vertiginoso gioco di specchi: tutta l’opera essendo ambientata all’interno di una cornice dorata, una stanza dai mille ingressi e segrete uscite, nella migliore tradizione della pochade alla Feydeau; e che a sua volta contiene come unico elemento d’arredo un altro quadro, con il panorama agreste di una mandria, tra cui spicca il primo piano del bovino in questione. Colpo d’ala di questa nuova produzione è l’esilarante messinscena firmata da Moshe Leiser e Patrice Caurier, con un passato da enfants terribles delle scene liriche ma, al tempo stesso, di collaudate frequentazioni rossiniane sui più importanti palcoscenici mitteleuropei. Capita di rado, infatti, di sentire il pubblico ridere di gusto, soprattutto con un titolo raramente rappresentato, per uno spettacolo di grande equilibrio, eleganza, senso della misura.

Perché bisogna ammetterlo senza mezzi termini: autentico detonatore della comicità rossiniana è qui il libretto di Gaetano Gasbarri, sul quale un linguista di rango come Fabio Rossi ha potuto esercitare la sua acribia critica, alla ricerca di tutti quegli ingredienti che nel novembre del 1811, dopo solo tre recite, indussero il Direttore Generale di Polizia di Milano a richiamare all’ordine il Prefetto di Bologna e imporre l’immediato ritiro dalle scene di un dramma infarcito «di Laide espressioni, e di frasi allusive alle più basse scurrilità», per tacere del «nodo stesso dell’azione, riposto tutto nell’equivoco di Ernestina, che per artificio […] supponesi essere non una donna, ma un eunuco […].» Tutto un repertorio di giochi verbali, doppi sensi e parodie lessicali, in gran parte a sfondo sessuale, che non solo oggi appare come un «condensato di testo buffo primottocentesco», ma che sembra anticipare tanta comicità del Novecento: la presentazione di Buralicchio a Ernestina, grazie ai ridicoli suggerimenti di un Gamberotto nelle inopportune vesti di Cyrano, o la lettura della lettera che Frontino mette in mano a Buralicchio, per fargli scoprire la vera ‘natura’ di Ernestina, allo spettatore contemporaneo non possono non richiamare gli analoghi casi di Totò o di Troisi.

Data la presenza di una materia tanto esplosiva, il rischio era quello di precipitare nella banalità o, peggio, nella volgarità. E invece la coppia di registi franco-belga lavora per sottrazione, punta sulle straordinarie potenzialità del testo e, soprattutto, sulla sua spiccata teatralità: grazie allo spericolato, virtuosistico continuo, assicurato da Gianni Fabbrini e Anselmo Pelliccioni, non una sola parola del libretto viene perduta e la commedia acquista consistenza dirompente, dalla critica sociale a due parvenus come Gamberotto e Buralicchio fino alle smanie ‘filosofiche’ di Ernestina, «che affetta letteratura» e non perde occasione per citazioni colte e allusioni poetiche. Il rigore dell’impostazione registica e lo sfondo neutro della scena unica non impediscono un’impronta interpretativa forte: nella grazia sorridente e sorniona dei costumi dalle morbide tinte pastello di Agostino Cavalca, che trapassano dal pistacchio dell’amoroso Ermanno al fucsia di Buralicchio, passando per il rosa tenue di Ernestina e il bordeaux di Gamberotto; ma soprattutto nella presenza di vistosi posticci, su tutti i nasi prominenti e fin quasi pinocchieschi, che denunciano un teatro fatto di maschere. Nessuno è quel che appare, tutti si fingono diversi da ciò che in realtà sono, fino alla geniale piroetta dell’equivoco ‘stravagante’, immaginato da un servo per gabbare i padroni. Lo scopo, celebrato nel finale («Amore d’ogn’alma trionfo sarà»), viene, peraltro, palesato sin dall’alzarsi del sipario, quando i due servitori gioiosamente si concedono ai piaceri dell’eros.

Per questa via, come Demetrio e Polibio per il genere serio, L’equivoco stravagante diventa chiave di volta per comprendere le strategie del comico nella drammaturgia rossiniana; e si candida – come giustamente auspica Marco Beghelli, curatore dell’edizione critica insieme a Stefano Piana – a inscriversi nella rosa di quei titoli che fanno la fortuna del repertorio buffo sui palcoscenici di tutto il mondo. Rossini, infatti, è già tutto lì, a cominciare dal crescendo, destinato a diventare indiscusso marchio di fabbrica dell’autore, seppur ancora con un occhio al presente che lo circonda (le opere dei vari Coccia, Generali, Pavesi) e che gli impone la scelta di arie in due tempi, secondo la tradizione tardo-settecentesca. Per questo la direzione di Carlo Rizzi, alla guida dell’Orchestra Sinfonica della RAI, ha mano ferma, sensibile ed equilibrata: suggerisce ma non anticipa, accompagna ma non soverchia, sottolinea ma non eccede. Si preoccupa di definire una grande campitura drammatica, dai primi passi esitanti dell’Introduzione fino al fragoroso, risolutivo irrompere dei soldati del Finale ultimo; e per ciascuno dei personaggi, d’intesa con i registi, individua un elemento su cui far leva per costruirne l’identità, che è musicale prima di diventare squisitamente drammatica. Si prenda il caso del «filosofico prurito» di Gamberotto, esplicitato solo alla fine dell’Introduzione, ma che in realtà si diffonde come un’epidemia a tutti gli altri personaggi, quasi a voler anticipare la «febbre scarlattina» di don Basilio; o ancora «il foco assai bestial», il «magnetismo» o forse «fanatismo» di Buralicchio, quasi un attacco d’incontenibile priapismo che lo renderà affatto estraneo alla povera Ernestina: tutti frammenti di una costruzione d’insieme, volta a sbalzare la psicologia dei personaggi e assicurarne l’efficace presenza scenica.

Non una singola tessera del mosaico appare fuori posto: a cominciare dalla compagine corale maschile del Teatro Ventidio Basso di Ascoli Piceno, cui la direzione di Giovanni Farina imprime grinta e ritmo vorticoso; fino ai due servitori, la sagace Rosalia di Claudia Muschio, che esibisce una sopranilità cristallina nell’aria da sorbetto «Quel furbarel d’amore», in tutto simile alle riflessioni che saranno poi di Berta; e il mercuriale, svettante Frontino di Manuel Amati, autentico deus ex machina dello stratagemma ‘stravagante’. Tra le più interessanti promesse della scuola russa, il tenore Pavel Kolgatin tratteggia un Ermanno in crescendo, al principio relegato ai languori del timido amoroso («Sì, trovar potrete un altro»), ma poi destinato a ben più eroici furori, nell’Aria del secondo atto e nella Cavatina della scena della prigione, affrontate con omogeneità di emissione e fluidità della coloratura.

La presenza di tre, autentici fuoriclasse concorre, infine, in maniera determinante al successo dello spettacolo. Paolo Bordogna si conferma re dei buffi, dominatore incontrastato di una scrittura che scandaglia con precisione semplicemente emozionante: le sue mitragliate di sillabati, su cui poi ricamano le altre voci, sono ormai diventate un’incandescente lezione di belcanto, così come la sua grande Aria è un piccolo, grande manuale di quello che verrà nel repertorio rossiniano. Ma a questo si aggiunga che l’aver guadagnato spessore nel registro grave gli consente, adesso, di conferire nuove sfumature al personaggio, meno caricaturale e fin quasi animato da una vena di nostalgico rimpianto per i «tempi in cui la zappa maneggiava», una sorta di rousseauviano stato di natura travolto dalla ‘filosofia’ imperante nei tempi moderni. Un’interpretazione di grande intelligenza, capace di svincolare la figura del basso caricato dalle maniere grossolane di tanta tradizione, fortunatamente superata. Non gli è da meno il Buralicchio di Davide Luciano, che dopo l’esemplare Figaro dell’anno passato si riconferma adesso presenza di spicco del panorama rossiniano. Oltre a una presenza scenica magnetica, ha dalla sua uno strumento di grande impatto, strepitosamente timbrato, magnificamente proiettato: è «ricco» ma non troppo «sciocco», delinea un terzo incomodo come, pochi anni più tardi, lo sarà Dandini, ma soprattutto incarna quell’ideale borghese, smanioso di promozione sociale, che diventerà cifra essenziale del teatro rossiniano. Gusto della frase e padronanza stilistica gli permettono, insieme a Bordogna, di imprimere il giusto tono allo spettacolo, sin dal primo Duettino «Ah vieni al mio seno».

Dal canto suo, Teresa Iervolino sarebbe già un’Ernestina da manuale, per l’inflessione chioccia, nasale e artificiosa che s’inventa per i recitativi; ma a questo poi aggiunge un sontuoso manto vocale, sfoderando sonorità calde, vellutate, avvolgenti, e fioriture di impressionante tenuta e grande finezza, destinate a rinverdire i fasti di Maria Marcolini, prima interprete dell’opera e tra le prime sostenitrici di Rossini. L’artista romana ne dispiega infatti l’ampio ventaglio espressivo, dal tono artatamente patetico della sortita al delizioso Duetto d’amore con Ernesto, fino al travolgente Rondò con cori finale, che se non è ancora trionfo d’intelligenza e di bontà, quanto meno la riconsegna a quelle «aure aperte» che ritorna infine a respirare. Non è un caso, allora, se il finale la riporta non già nell’antico castello di Gamberotto, ma all’interno di quel quadro dove potrà confondersi con i militari, allegro retaggio delle conquiste napoleoniche, e con quella mucca, che la seguirà pimpante nel tripudio generale. [Rating:5/5]

Rossini Opera Festival 2019
L’EQUIVOCO STRAVAGANTE
Dramma giocoso in due atti di Gaetano Gasbarri
Musica di Gioachino Rossini
Edizione critica della Fondazione Rossini, in collaborazione con Casa Ricordi,
a cura di Marco Beghelli e Stefano Piana

Ernestina Teresa Iervolino
Gambarotto Paolo Bordogna
Buralicchio Davide Luciano
Ermanno Pavel Kolgatin
Rosalia Claudia Muschio
Frontino Manuel Amati

Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI
Coro del Teatro Ventidio Basso di Ascoli Piceno
Direttore Carlo Rizzi
Maestro del coro Giovanni Farina
Maestro al cembalo Gianni Fabbrini
Violoncello al continuo Anselmo Pelliccioni
Regia Moshe Leiser e Patrice Caurier
Scene Christian Fenouillat
Costumi Agostino Cavalca
Luci Christophe Forey
Nuova produzione
Pesaro, Vitrifrigo Arena, 13 agosto 2018