Oltre a Puccini c’è di più. Se n’è resa conto in tempi recenti la nostra industria lirica, che è tornata a pescare con una certa costanza nel repertorio assai bistrattato di autori che vissero e lavorarono a fianco del grande Lucchese. Alzi la mano chi, una decina d’anni fa, avrebbe pensato di veder rifiorire in un sol botto L’amico Fritz, Fedora, Gina, finanche un autentico capolavoro come Wally. Uno dei titoli che ha goduto del risalire della marea è certo Andrea Chénier. Un’opera, quella di Umberto Giordano, che a dir il vero non è mai uscita del tutto dal repertorio, ma che in questo periodo sta vivendo una seconda giovinezza, con un numero sorprendente di allestimenti su e giù per la penisola (quello che ha inaugurato la stagione 2017/18 della Scala è solo la punta dell’iceberg).
Al Regio di Parma Andrea Chénier arriva in un nuovo allestimento che, dopo aver debuttato a Modena un paio di mesi fa, ha già fatto un ampio giro nei teatri emiliano-romagnoli. La regia firmata da Nicola Berloffa, in sintonia con le scene di Justin Arienti e i costumi di Edoardo Russo, rispetta l’originale ambientazione negli anni della Rivoluzione francese e costruisce un dramma tutto d’interni. Due pareti oblique delimitano il palcoscenico, ed essenziali variazioni di arredi e di luci (Valerio Tiberi) servono a tratteggiare le ambientazioni descritte nelle dettagliate didascalie del libretto di Luigi Illica. Un ricco salotto aristocratico può così diventare caotico crocicchio rivoluzionario, spietato tribunale, sala del patibolo. È l’azione della Rivoluzione che scarnifica le strutture (ambientali, ma, metaforicamente, anche sociali e morali), fino a rivelarne la nuda impalcatura. Non per niente, la ghigliottina è una presenza costante e minacciosa, simbolo di un sanguinario autoritarismo (il Terrore) che demolisce l’odiosa cecità dell’ancien régime. Gli ambienti e i costumi settecenteschi vanno a braccetto con una gestualità d’antan, che tende non di rado alla verbosità. Un allestimento di lineare e tenace tradizione, quello di Berloffa, che descrive più che interpretare, ma che, in fin dei conti, rispetta dramma e musica.
Lo stesso descrittivismo contraddistingue la direzione di Giovanni Di Stefano, che della partitura esalta il passo drammatico rapinoso e il complesso gioco di spazializzazione sonora, di pieni e vuoti, di musica dentro e fuori scena. Non mancano comunque opportune sottolineature alle raffinatezze timbriche dispensate da Giordano: lo asseconda in questo un’Orchestra Toscanini in ottima forma, meno una compagine corale non sempre inappuntabile, specie nelle parti femminili. Ne risulta una lettura di garbata eleganza, a tratti forse fin troppo cauta, ma nel complesso controllata ed efficace.
A contribuire al buon esito dello spettacolo (gli applausi, al calar del sipario, sono copiosi) è un cast di livello, che mostra punte di eccellenza nel terzetto di protagonisti. A spiccare è l’Andrea Chénier di Martin Muehle: voce generosa, omogenea e limpidissima, che si proietta all’acuto senza sforzi, condita da pulizia di fraseggio e da una presenza scenica di distinta autorevolezza. Capita di rado di sentire declinare con altrettanta statuaria vigoria “Un dì all’azzurro spazio”. Ottimo anche Claudio Sgura, che restituisce a sbalzo la figura complessa di Carlo Gérard per mezzo di accenti espressivi, timbro profondo e volume ragguardevole. Trascinante, quasi commovente, è il trasporto con il quale pronuncia la difesa di Chénier nel quarto quadro. Coinvolta e coinvolgente è la Maddalena di Teresa Romano: la duttilità di una voce pastosa ed educata le permette di restituire con garbo i tratti leggeri della parte, e di spiccare nelle pagine di più intenso pathos drammatico. Convince nell’attesissimo “La mamma morta”, anche se una gestualità meno enfatica avrebbe giovato.
Le tanti parti di contorno risultano nel complesso ben amalgamate. Stefano Marchisio è un Roucher d’eccezione per bellezza di colore e facilità d’emissione, Nozomi Kato, benché piuttosto rigida, restituisce con efficacia gli sfoghi drammatici della parte di Bersi, e l’acutezza timbrica di Alfonso Zambuto si rivela del tutto appropriata alla parte del viscido “Incredibile”. Apprezzabile per spigliatezza vocale e attoriale il Mathieu di Fellipe Oliveira, e irreprensibile è Antonella Colaianni nel ruolo straziante di Madelon. È corretta ma fredda la Contessa di Coigny di Shay Bloch, mentre appropriati risultano Alex Martini (Fléville/Fouquier-Tinville), Roberto Carli (Abate), Stefano Cescatti (Schmidt) e Luca Marcheselli (Maestro di Casa/Dumas).
Teatro Regio di Parma – Stagione d’opera 2019
ANDREA CHÉNIER
Dramma di ambiente storico in quattro quadri su libretto di Luigi Illica
Musica Umberto Giordano
Andrea Chénier Martin Muehle
Carlo Gérard Claudio Sgura
Maddalena di Coigny Teresa Romano
La mulatta Bersi Nozomi Kato
La Contessa di Coigny Shay Bloch
Madelon Antonella Colaianni
Roucher Stefano Marchisio
Pietro Fléville/Fouquier Tinville Alex Martini
Il sanculotto Mathieu Fellipe Oliveira
Un “Incredibile” Alfonso Zambuto
L’abate, poeta Roberto Carli
Schmidt Stefano Cescatti
Il Maestro di Casa/Dumas Luca Marcheselli
Orchestra dell’Emilia-Romagna Arturo Toscanini
Associazione Coro Lirico Terre Verdiane – Fondazione Teatro Comunale di Modena
Direttore Giovanni Di Stefano
Maestro del coro Stefano Colò
Regia Nicola Berloffa
Scene Justin Arienti
Costumi Edoardo Russo
Luci Valerio Tiberi
Coproduzione Fondazione Teatro Comunale di Modena,
Fondazione Teatri di Piacenza, Fondazione I Teatri di Reggio Emilia,
Fondazione Ravenna Manifestazioni, Fondazione Teatro Regio di Parma
Allestimento in coproduzione con Opéra de Toulon
Parma, 5 aprile 2019