Da alcuni anni a questa parte il Festival Verdi si è dato una formula ben definita, che si potrebbe definire diffusa: quattro titoli in cartellone, due montati al Regio, uno al Verdi di Busseto e uno in un luogo “altro” di Parma, geneticamente estraneo al melodramma dell’Ottocento e per questo adatto (almeno sulla carta) ad accogliere allestimenti scenici sperimentali, affidati a grandi firme della regia contemporanea. Per un triennio quest’ultimo ufficio è stato ricoperto dal Teatro Farnese; ora il testimone passa a un altro gioiello della città, la duecentesca chiesa di San Francesco del Prato, sede dell’ordine francescano fino all’epoca napoleonica, poi carcere fino al 1993. Oggetto di un ambizioso progetto di restauro che in qualche anno lo restituirà al culto, quest’edificio è oggi un enorme cantiere. Da terra a tetto si arrampica una fittissima ragnatela di ponteggi, con tre aree calpestabili riservate al Festival: parte dell’abside, parte della navata centrale e una piccola tribuna sopraelevata.
Ora, l’esperienza del Farnese insegna che l’utilizzo di spazi inusuali per le opere di Verdi (ma forse si potrebbe generalizzare e dire: per l’opera tout court) è tanto più efficace quanto più il metteur en scène decide di osare: l’idea registica, cioè, deve essere sufficientemente forte da sopperire alle magagne (in primo luogo acustiche) che minano inevitabilmente l’esecuzione musicale. Se si provasse a stendere un bilancio dei tre allestimenti dati al Farnese fra il 2016 e il 2018 credo che la stragrande maggioranza concorderebbe nel mettere sul podio il memorabile Stiffelio firmato da Graham Vick, con il pubblico in piedi, inglobato nello spettacolo, mentre su un gradino più basso starebbero la Giovanna d’Arco di Peter Greenaway e il Trouvère di Bob Wilson, più tradizionali nel loro impianto scenico (il secondo molto più della prima).
La bontà della regola empirica “più si sperimenta meglio è” – che può essere anche declinata nella forma “se non si sperimenta tanto vale restare in teatro” – ha trovato quest’anno un’ennesima conferma nella Luisa Miller firmata dal mostro sacro del teatro russo Lev Dodin. Non so quali fossero i vincoli dati dal lavorare all’interno di un cantiere, ma li immagino molto stringenti; ciò non toglie che la proposta del regista pecchi di un’essenzialità che sa tanto di rinuncia. La chiesa è usata esattamente come fosse un teatro, con il pubblico nella platea-navata e lo spettacolo nell’abside-palcoscenico; la scenografia (di Aleksandr Borovskij) si esaurisce sostanzialmente in fasce di legno a coprire le impalcature a suggerire un’ambientazione antica che i costumi (pure di Borovskij) collocano decisamente nel Seicento. Certo, il progetto luci di Damir Ismagilov è suggestivo e la gestualità degli attori controllata, ma quello risulta più utile a esaltare l’architettura della chiesa che a servire la drammaturgia dell’opera, e questa, complice l’assenza di quinte, non si scrolla di dosso un fastidioso retrogusto da recite d’antan rette dal criterio entra-canta-esci. Non si può negare che l’allestimento possieda una sua compostezza quasi ieratica, coerente con l’intenzione dichiarata da Dodin di mostrare Luisa Miller sotto forma di «liturgia dell’amore»: un’idea, però, che sembra discendere dal luogo in cui ci si trova più che dalla sostanza dell’opera – forse la più atrocemente nichilista di Verdi.
Di un certo afflato religioso sembra improntata anche la lettura musicale di Roberto Abbado: ma gli esiti, in questo caso, sono più convincenti. Alla testa delle masse artistiche del Comunale di Bologna (orchestra e coro, quest’ultimo istruito da Alberto Malazzi), il direttore offre un’interpretazione sorvegliata nella scelta dei tempi, elegante nel dosaggio dei colori, attenta alla calibratura del canto (prova ne sia il bellissimo quartetto a cappella del secondo atto), quasi trattenuta nei momenti che offrirebbero il destro al facile effetto. Una lettura, insomma, affatto consapevole del mordente di una partitura che critici ottocenteschi riconobbero come la prima di una “seconda maniera”, più meditata e matura, di Verdi. A conti fatti, si resta con un po’ di amaro in bocca per aver potuto soltanto intuire, a causa delle condizioni acustiche non ottimali, alcune delle raffinatezze dispensate da Abbado.
Anche i cantanti devono fare inevitabilmente i conti con spazi impietosi per vastità e per sonorità, e certo non è un caso se a emergere sono le voci dotate di maggior potenza e squillo. Eccelle Franco Vassallo nei panni di Miller: non solo per il volume copioso e la limpidezza del timbro, ma anche per il fraseggiare nobile e controllato. Ottima Francesca Dotto, una Luisa provvista di bel timbro e pregnanti accenti drammatici, e convincente il Rodolfo di Amadi Lagha, un tenore che si fa apprezzare per emissione generosa e incisività del fraseggio. Riccardo Zanellato ha tratteggiato un Conte di Walter nobile, anche se vocalmente è sembrato piuttosto affaticato, mentre Wurm, impersonato da Gabriele Sagona, è parso volenteroso ma poco approfondito. Adeguato Federico Veltri nella particina del contadino, mentre una menzione d’onore va a Veta Pilipenko, la quale, oltre a ricoprire, come da cartellone, il ruolo di Laura, è stata chiamata a sostituire l’indisposta Martina Belli nei panni di Federica: in questa duplice veste il mezzosoprano non ha affatto sfigurato.
Applausi per tutti, a fine spettacolo, da parte di un pubblico che in buona parte parlava lingue diverse dall’italiano.
Festival Verdi 2019 – Chiesa di San Francesco del Prato
LUISA MILLER
Melodramma tragico in tre atti di Salvadore Cammarano
Musica di Giuseppe Verdi
Edizione critica a cura di Jeffrey Kallberg
Il Conte di Walter Riccardo Zanellato
Rodolfo Amadi Lagha
Federica Veta Pipilenko
Wurm Gabriele Sagona
Miller Franco Vassallo
Luisa Francesca Dotto
Laura Veta Pilipenko
Un contadino Federico Veltri
Orchestra e Coro del Teatro Comunale di Bologna
Maestro del coro Alberto Malazzi
Direttore Roberto Abbado
Regia Lev Dodin
Scene e costumi Aleksandr Borovskij
Luci Damir Ismagilov
Assistente regista Dmitrij Košmin
Drammaturgia Dina Dodina
Nuovo allestimento del Teatro Regio di Parma
in coproduzione con Teatro Comunale di Bologna
in collaborazione con Diocesi di Parma
Parma, 12 ottobre 2019