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Palermo, Teatro Massimo – Recital di Waltraud Meier

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Tre granati, in forma di triangolo. Non è con un abito particolare che Waltraud Meier – ospite dell’ultimo appuntamento del blasonato cartellone di Recital del Teatro Massimo di Palermo – stupisce l’uditorio: tutt’altro. Esibisce, infatti, una mise fin troppo sobria, seppur estremamente elegante, quale si addice a un concerto di canto. Ma la luce dei riflettori valorizza un paio d’orecchini che, d’istinto, creano il primo cortocircuito della serata: sembrano quelli di Marie, la protagonista femminile di Wozzeck, autentico cavallo di battaglia di Meier, dono del Tamburmaggiore e quasi stimmate di quel precipitare verso il baratro del nulla che è, forse, una delle cifre più inquietanti del capolavoro di Berg.
Non è casuale, forse, il riferimento: perché l’artista tedesca presenta una Liederabend che sfugge alle sirene tentatrici del repertorio lirico, tutta impostata, invece, su alcune grandi pagine della letteratura tedesca per voce e pianoforte. È un percorso ricco di suggestioni – e con alcuni momenti altissimi – che forse meglio si attaglia a una vocalità sulla quale il trascorrere delle primavere ha inevitabilmente lasciato il segno, in maniera tangibile eppur delicata, mantenendo la presenza di una voce che ha segnato il passaggio tra i due secoli, sin dal trionfale successo a Bayreuth nel 1983. Oltre che nell’opera di Berg, Meier è stata Sieglinde, Isolde e Kundry di riferimento, prima di dar vita a una Klytämnestra angosciante e angosciata, icona di travagli freudiani, di straordinario impatto.

Per questo risulta interessante la scelta dei brani del recital, impaginati secondo un crescendo emozionale, oltre che musicale, che in breve traccia una storia della liederistica, poi sintetizzata in maniera rapinosa nei tre fuori programma. E allora comincia dalla Rheinlegendchen, settimo Lied cavato dalla raccolta Des Knaben Wunderhorn di Gustav Mahler, di cui restituisce la semplicità fanciullesca – ma allo stesso tempo l’atmosfera gravida di premonizioni nel seguire le vicende di quell’«anellino d’oro» che, scivolando dal Neckar al Reno, passa dalle mani della protagonista fino alla tavola del re, quasi a voler ricordare il ruolo capitale di anelli forgiati con l’oro del Reno. È il pianoforte di Joseph Breinl a mettere in moto la sinistra macchina di Das irdische Leben, con l’ostinato pulsare di semicrome: storia di un dialogo tra madre e figlio in cui è la fame a farla da padrona, nella fosca alternanza tra richieste sempre più perentorie e risposte sempre meno credibili. Meier gioca sui colori, vieppiù opachi in una tonalità fortemente bemollizzata, fino all’esplosione del salto d’ottava – che porta a una decima – quando, pronto il pane, il bimbo giace ormai nella «Totenbahr», la bara della morte. L’atmosfera quasi shakespeariana di Wo die schönen Trompeten blasen, canto dell’ultima notte d’amore prima della partenza per la battaglia, precede la celeberrima Das Antonius von Padua Fischpredigt: predica appassionata di cui l’artista sottolinea l’inesorabile procedere in forma di ballata, fino a una conclusione («Die Predigt hat g’fallen, | Sie bleiben wie alle», «La predica è piaciuta, | Tutti restano come prima») in cui l’umorismo s’inceppa in accenti di pietra.
Ancor più articolata, se possibile, è l’antologia tratta dai Lieder su testi di Eduard Mörike di Hugo Wolf. Qui è il contrasto tra il primaverile rifiorire della natura, da una parte, e la riflessione escatologica, dall’altra, a permettere all’artista bavarese di squadernare un ampio ventaglio espressivo: che tocca il vertice nello straziante Denk’es, o Seele – premonitorio explicit di Mozart in viaggio verso Praga, che si chiude proprio sui versi che la contessina Eugenie ritrova dopo la partenza del musicista alla volta della capitale boema – e si ricompone nel malinconico slancio di Verborengenheit, in cerca di un isolamento che è ritiro dalle cure come dalle lusinghe del mondo. Nella morbidezza del legato si consuma la poesia di Gesang Weylas, omaggio a una patria immaginaria cui sorride la protezione degli dei.

La seconda parte si apre sotto gli auspici di Wagner e dell’esecuzione integrale dei suoi Wesendonck Lieder. Qui è la pagina preparatoria di Tristan und Isolde a irretire Meier, che ritrova la cura esemplare del fraseggio, una semplicità disarmante e coinvolgente, quel respiro panico per il quale giganteggiava la sua principessa d’Irlanda. Sigla un percorso per illuminazioni progressive ma folgoranti: si pensi alla breve sospensione prima di «da der Engel nieder schwebt» («là l’angelo scende»), in cui ritrova tutta l’abbagliante luminosità della cadenza perfetta; e, per contro, quelle forcelle che piombano sull’inesorabile «Schmerz», su un dolore dal quale affrancarsi in una dimensione oltremondana. E se Stehe still! viene polarizzato verso il finale, in cui la massa accordale del pianoforte sostiene la perentoria celebrazione della natura, Im Treibhaus attinge a preziosità timbriche disseminate nei punti armonicamente più instabili: lo «smeraldo» dei baldacchini di foglie, l’impennarsi sul fa acuto dei «segni di luce», e subito dopo un semitono più in alto per esprimere il «dolce profumo» del dolore; quindi il tetro precipitare sotto il pentagramma verso l’«oscurità del silenzio», resa ancor più enigmatica dal tremolo del pianoforte. Il ritmo puntato di Schmerzen diventa travolgente veicolo di comparazione tra il percorso del sole, che ogni giorno rinasce a nuova vita, e il dolore che la natura stessa invita a superare: Meier ne traduce l’empito con foga visionaria, finalmente libera da ogni prudenza, conquistata dalla forza della musica. Traüme, nel suo inarrestabile crescendo, manifesta fiducia cieca nel potere dei sogni; ma si spegne in una consolata desolazione, che sarà poi di Isolde, e che qui viene quasi sussurrata, indicata, teneramente accolta.
L’ultimo numero della prima parte dei Gurre-Lieder di Arnold Schönberg, il Lied der Waldtaube, conclude il programma. L’interprete lo avvolge nel velluto del suo manto e ne fa la voce narrante del lungo epicedio di Tove, l’amante del re, ma soprattutto della gelosia della regina, uno scontro simboleggiato dalla colomba della prima e dal falco della seconda. È un testo che si adatta in maniera mirabile alle possibilità dell’artista, che scava nella parola, nell’atmosfera onirica e trasognata del brano, quasi una scena lirica dai contorni morbidamente Jugendstil.
È una chiusura di sipario momentanea, perché gli applausi inducono Waltraud Meier a ritornare sulla scena con una nuova, breve ma strepitosa cavalcata nella storia del Lied. Breinl perfettamente la asseconda nella mutevole, infuocata temperie di Als Luise die Briefe eines ungetreuen Liebhabers verbrannte, K 520, di Wolfgang Amadeus Mozart, in cui la voce s’accende nella seconda appassionante strofa in cui deflagra tutto il dolore di un amore tradito. Non poteva mancare, a questo punto, un omaggio allo Schubert di Erlkönig, in cui il racconto fantastico viene esaltato da un’eccitazione febbrile: la trama ritmica percussiva della tastiera si arresta sull’ultimo verso, declamato con allucinata potenza espressiva. Ancora Wolf per il congedo, nel segno di Mörike: con l’ammiccante Abschied, che sembra anticipare le atmosfere sulfurre dei Kabarett berlinesi di primo Novecento. Per chiudere il cerchio – o forse l’anello, raccolto sulle rive del Reno.

Teatro Massimo – Recital 2019
LIEDERABEND

Gustav Mahler
da Das Knaben Wunderhorn
Rheinlegendchen
Das iridsche Leben
Wo die schönen Trompeten blasen
Des Antonius von Padua Fischpredigt

Hugo Wolf
dai Mörike-Lieder
In der Frühe
Denk’ es, o Seele
Wo find’ ich Trost
Das verlassene Mägdlein
Verborgenheit
Gesang Weylas

Richard Wagner
Wesendonck-Lieder

Arnold Schönberg
Lied der Waldtaube dai Gurre-Lieder

Mezzosoprano Waltraud Meier
Pianista Joseph Breinl
Palermo, 5 dicembre 2019

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