Cartoline d’epoca per selfie d’autore. Sta diventando prassi di gran parte degli enti lirici avviare la programmazione autunnale con riprese di spettacoli di successo: da un lato per accontentare i gusti del pubblico più tradizionalista, dall’altra per intercettare quel movimento turistico che aspira all’ennesimo scatto con sfondo di un palco reale o di uno scalone monumentale. Bene ha fatto dunque il Teatro Massimo di Palermo a riaprire i battenti riproponendo un fortunato allestimento della Traviata, che qui aveva debuttato nella primavera di due anni or sono (e sul quale avevamo ampiamente scritto su queste colonne) e che è stato applaudito in tutto il mondo, segnatamente nel corso di una fortunata tournée in Giappone.
È, infatti, una sorta di celebrazione al quadrato del capolavoro verdiano, che l’elegante produzione firmata da Mario Pontiggia (adesso fedelmente ripresa da Angelica Dettori) ambienta nella Palermo della Belle Époque, in un intrigante gioco di specchi tra le architetture liberty della sala dei Basile e quanto si svolge sul palcoscenico: dove Violetta Valéry è chiamata a rinnovare i fasti dell’epoca di donna Franca Florio, a tutti nota per il celeberrimo ritratto di Giovanni Boldini, tra i grandi capolavori dell’arte italiana d’inizio secolo. L’allestimento punta sull’accurata ricostruzione dell’impaginazione scenografica firmata da Antonella Conte e Francesco Zito, quest’ultimo autore anche dei ricercati costumi: a partire dal giardino del primo atto, in cui si apprezza il gioco di trasparenze trompe l’œil, fino all’abile rielaborazione degli interni di Villa Whitaker, nel tripudio floreale degli affreschi di Ettore De Maria Bergler e del modernariato degli arredi di Vittorio Ducrot. Più delle volte passate, invece, convince ora il progressivo scarnificarsi dello spazio scenico, già nel boudoir di Flora, attraversato da un velario scarlatto, fino alla devastante solitudine della stanza da letto di Violetta, trafitta dalle luci di Bruno Ciulli, come sempre magistrale nel definire atmosfere ed emozioni. La pimpante esteriorità di aigrettes e fili di perle prevale sul gioco scenico, fin troppo misurato ed essenziale, con l’unica esplosione delle vorticose, trascinanti coreografie di Giuseppe Bonanno – rimontate da Alberto Montesso – nella seconda festa dell’opera, che vedono la partecipazione di Gaetano La Mantia e Monica Piazza a raccontare amori e passioni di ardenti matadores e sensuali zingarelle.
Concepito anche allo scopo di valorizzare giovani talenti locali, lo spettacolo vede sul podio il palermitano Alberto Maniaci: bacchetta solidissima e impegnata in una efficace resa della partitura, sin dalla misurata vaporosità del Preludio, per poi passare a una festa di sorprendente equilibrio. Non cerca, insomma, scatti improvvisi e dinamiche schizofreniche, atmosfere elettrizzanti e deliri collettivi, ma asseconda il dramma, scava tra le pieghe, restituisce misura e vigore senza eccessi, personalismi, forzature; e soprattutto conosce l’arte di accompagnare il canto, che nel repertorio italiano dell’Ottocento è di fondamentale importanza. Per questo abilmente asseconda una compagnia di canto attendibile, soprattutto per quel che riguarda i primi ruoli, mentre tra i comprimari, come spesso capita, c’è del buono e del meno buono: meritano una menzione almeno lo smagliante Marchese di Alessio Verna, la morbida, seducente Flora di Carlotta Vichi, l’importante Annina di Piera Bivona, e ancora Francesco Polizzi come Giuseppe e Antonio Barbagallo in un paio di ruoli. Da segnalare il fatto che la compagine corale, passata alla direzione di Ciro Visco, mantiene intatte la salda compattezza, precisione e pastosità che la connotano.
Note positive per il terzetto di protagonisti. Simone Del Savio s’impone come Germont scenicamente e vocalmente inappuntabile, forte di una grana che – seppur tende leggermente a stimbrarsi nel settore acuto – è immagine di quel rigore morale, in cui s’inscrive il personaggio. Scardina la felicità coniugale di Violetta e Alfredo con tono quasi affettuoso, quando attacca un «Pura siccome un angelo» che è suadente e suasivo, ma progressivamente si fa muro invalicabile di un’autorità inappellabile, ben resa nel crescendo emotivo fino a «Un dì, quando le veneri» in cui la sua voce appare quasi «balsamo» di una volontà superiore. Spira, sull’intera scena, una domesticità cui efficacemente contribuisce anche l’Alfredo di Francesco Castoro, che avrà certamente modo di maturare il ruolo ma che sin d’ora conferma le ottime doti tenorili che lo caratterizzano, forte di una freschezza, di un empito giovanile che ben si addicono al personaggio. È, peraltro, artista particolarmente versato nel repertorio primottocentesco, e dunque non solo non incontra alcuna difficoltà nella cabaletta «Oh mio rimorso! Oh infamia!…», ma addirittura le imprime un’urgenza espressiva, fatta di nitore e rigore, destinata a culminare in un’invettiva padroneggiata fino alla luminosa puntatura conclusiva.
Al debutto nel titolo, Ruth Iniesta è Violetta di notevole caratura drammatica e di ragguardevole maturità scenica, decisamente più convincente rispetto alla Gilda palermitana dell’anno passato. Dalla sua, peraltro, riesce a mettere a frutto anche il retrogusto asprigno del timbro, che in questo caso ben si attaglia a una versione rétro dell’opera: facendone quasi una diva del cinema d’antan, con quel profumo d’antico che la produzione le richiede. È interprete spavalda, nel primo atto, sicura nelle agilità della grande Aria; ma pronta a mostrare le crepe di un amore apparentemente incrollabile già quando «Non sapete quale affetto» si fessura di pause, note puntate, salti d’ottava. Vigile, attenta, perfettamente calibrata, delinea un percorso credibile e ben ponderato dalle potenti arcate di «Dite alla giovine», sostenute da un pregevole legato, fino all’accorato suggello di «Alfredo, Alfredo, di questo core»: cui forse manca ancora tutto lo strazio di un «Amami, Alfredo» di livello – ma, si sa, è pagina tra le più alte dell’intera storia del melodramma, e dunque arriverà con l’esperienza. Sarà l’«Addio del passato» a chiudere il cerchio, in una visione intimista e raccolta che si raggruma intorno a un letto di morte circolare, rotondo come l’ultima camelia che appassisce: e che qui a Palermo esala la penetrante fragranza di gelsomino, in una tiepida sera di fine estate.
Teatro Massimo – Stagione di opere e balletti 2019
LA TRAVIATA
Melodramma in tre atti di Francesco Maria Piave
Musica di Giuseppe Verdi
Violetta Valéry Ruth Iniesta
Flora Bervoix Carlotta Vichi
Annina Piera Bivona
Alfredo Germont Francesco Castoro
Giorgio Germont Simone Del Savio
Gastone Pietro Picone
Barone Douphol Lorenzo Grante
Marchese d’Obigny Alessio Verna
Dottor Grenvil Alessandro Abis
Giuseppe Francesco Polizzi
Domestico di Flora Antonio Barbagallo
Commissionario Antonio Barbagallo
Matador Gaetano La Mantia
Zingarella Monica Piazza
Orchestra e Coro del Teatro Massimo
Direttore Alberto Maniaci
Maestro del coro Ciro Visco
Regia Mario Pontiggia
ripresa da Angelica Dettori
Scene Francesco Zito e Antonella Conte
Costumi Francesco Zito
Luci Bruno Ciulli
Coreografia Giuseppe Bonanno
ripresa da Alberto Montesso
Palermo, 19 settembre 2019