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Palermo, Teatro Massimo – Idomeneo

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C’è stato un tempo – nella storia delle religioni – appartenuto a Crono e ad Abramo, padri divoratori di figli, mossi da smania di potere o dalla cieca, superiore volontà divina. Poi è venuto il tempo – nella storia del teatro – in cui il rapporto tra padri e figli, cruciale nell’evoluzione delle relazioni personali, è diventato ulcerante riflessione su contrasti insanabili, sale su ferite mai cicatrizzate: perché tutti i padri cercano di fagocitare l’identità dei figli, tutti i figli uccidono i padri. E se molto – troppo, forse – si è detto su altre figure paterne del teatro musicale romantico, sempre poco si parla dell’ombra incombente di Leopold Mozart sulla produzione della maturità di Wolfgang Amadeus Mozart, a partire da quell’Idomeneo, re di Creta, che nel 1781 spiana la strada ai grandi capolavori. È tornato il tempo di Idomeneo, finalmente, nei cartelloni al Nord come al Sud, alla Scala come al Teatro Massimo di Palermo, dove – incredibile a dirsi – mai era stato prima rappresentato, e che il pubblico siciliano ha potuto riascoltare dopo un’assenza che risaliva al bicentenario del 1991.

È un tempo fausto, quello dello spettacolo palermitano. Il primo motivo di interesse viene dal motore dell’intera operazione: sta in buca, si chiama Daniel Cohen e di Mozart si rivela interprete agguerrito, sensibilissimo, persuasivo. Non cerca, opportunamente, di ricostruire sonorità d’epoca: non avrebbe senso con un’orchestra moderna, peraltro adusa a ben altro repertorio. Ma questo non gli impedisce di tornire il suono, di elaborare una pasta che, forse meno limpida negli archi, viene scolpita, nitida e guizzante, da fiati, ottoni e percussioni. Sbalza un Idomeneo purissimo e scabro, energico e grintoso: tragico, in una parola, e per questo di strepitosa, dirompente teatralità, non solo nelle arie ma anche, e forse soprattutto, in recitativi, secchi e accompagnati, in cui scava il senso della parola, riaccendendone intime pulsioni, pulsazioni, vibrazioni. Al netto di alcune minime sfasature, egregiamente lo supporta anche la compagine corale – come sempre istruita da Piero Monti – che diventa veicolo di un Mozart risciacquato nei panni della Senna, sensibile ai monumentali equilibri della tragédie-lyrique, ma mai incline a una solennità fine a se stessa: l’improvvisa inquietudine che serpeggia, sussurrata, nel Finale II, o ancora la maestosa solennità di «Oh voto tremendo!» contano tra i momenti di più alta temperatura emotiva, di maggior impatto sonoro dell’intera campitura architettonica. L’asciutta incisività del profilo musicale, peraltro, magnificamente sostiene l’intera compagnia di canto: al di là dei singoli risultati, è sempre percepibile una consentaneità con il dettato mozartiano, esaltato nella retorica degli accenti, nell’enfasi di una declamazione sempre in cerca di una costante diversificazione espressiva.

Il sipario di apertura spetta a Carmela Remigio che veste i panni di Ilia. Bastano poche, icastiche battute – quel «Quando avran fine omai l’aspre sventure mie?», che è già tutta una dichiarazione d’intenti – per comprendere quanto il personaggio della sventurata principessa troiana si attagli alle corde del soprano abruzzese: già il recitativo si anima di sonorità crepitanti, prende forma con una varietà di accenti (che meraviglia, quell’«Orsù sbranate, vendetta, gelosia, odio, ed amore»!) che poi si stemperano, da manuale, nell’aria «Padre, germani, addio», in cui viene pure valorizzato un piccolo, sordo vibrato di fondo per tradurre un soffocato, soffocante mal de vivre. Si è certo sentita coloratura più fluida, timbro più cristallino di quello della Remigio: ma è talmente brava sulla scena da restituire un senso anche alla luttuosa tunica nera che la affligge sin dal primo atto, complice un port de bras di statuaria, soggiogante distinzione – perché è l’unica ad aver sposato l’estetica neoclassica della produzione di Pizzi. Per questo conduce il gioco nel terzo atto, con cui rilegge Mozart alla luce di quello che suggerirà, di quello che diventerà, di ciò che indicherà ai compositori posteriori: dapprima nell’aria, «Zeffiretti lusinghieri», in cui il dialogo con i fiati s’impregna di una malinconia pudica eppur sensuale, quindi nell’atteso incontro con Idamante, nel corso di un recitativo che meravigliosamente s’inceppa su un salto di quarta discendente («Vivi!») con cui la fanciulla firma, con un sol cenno, la salvezza dell’amato – e la sua condanna. L’accompagnato che ne scaturisce, il duetto con Idamante che ne sgorga è semplicemente incantevole, con due voci che – a distanza di terza – si cercano, s’incontrano, mirabilmente si fondono, Giulietta e Romeo ante litteram, con un senso di abbandono a un destino superiore semplicemente commovente.
Se Remigio guarda avanti, l’Idamante di Aya Wakizono guarda indietro perché meriterebbe uno di quei titoli haydniani come ‘la virtù premiata’ o ‘la vera costanza’. Dopo le impegnative prove pesaresi degli ultimi anni, l’artista giapponese si conferma elemento di pregio: ha una figuretta svelta e agile che tanto ricorda quella di Frederica von Stade, ne possiede tutta la grazia giovanile, il candore, l’innata dolcezza. Mezzosoprano – a tratti fin troppo – chiaro, all’eleganza della presenza scenica associa una strabiliante capacità di abitare gli affetti dei recitativi come una mirabile duttilità nel fraseggio delle arie: s’intesta il Finale I («Il padre adorato») con efficace capacità d’immedesimazione e risolve le impervie vocalizzazioni con morbida emissione e agguerrita musicalità. È, insomma, un’eccellente professionista, che tuttavia dovrà conquistare, nel prossimo futuro, ciò che ancora le manca: un’autentica, originale personalità interpretativa, ancora da costruire ed elaborare.
Considerazioni, queste, che si indirizzano anche a René Barbera, al suo debutto nel temibile ruolo di Idomeneo: aggravate forse da una presenza scenica che viene pietrificata in un’indifferenza le mille miglia lontana dal tormentato rovello del re cretese. È, come sempre, stilista di pregio, solidissimo nella linea di canto, sempre magistralmente sul fiato, preparatissimo – ma potrebbe non esserlo, un rossiniano come lui? – nello sgranare le impervie agilità di «Fuor del mar», che articola con limpida, imperturbabile sicurezza. Ma basta questo a farne un ottimo Idomeneo? Tetragono a ogni evento, non lo è nella scena del naufragio, in cui manca il senso d’orrore per il patto convenuto con Nettuno, non lo è nel Finale II, in cui si attende invano il tono di sfida che deve accompagnare la confessione («Eccoti in me, barbaro nume! il reo!»); non lo è, infine, nella Cavatina con coro dell’ultimo atto («Accogli, oh re del mar, i nostri voti»), in cui è lecito attendere ben altra grandiosità di accento. È, insomma, un Idomeneo vocalmente forbito ma distaccato e glaciale, avaro di emozioni, di quella maturità indispensabile per trasmettere l’alto spessore filosofico del personaggio.
Si ritaglia un successo personale la fiammeggiante Elettra di Eleonora Buratto, che sembra moltiplicare le frecce al suo arco. Se infatti, sin dalla prima aria di furore, si mostra interprete convincente della coloratura di forza, che costituisce la cifra distintiva del personaggio, è nel clima elegiaco della seconda aria, «Idol mio, se ritroso», che mette a profitto l’eleganza di ampie arcate melodiche e le seduzioni di un timbro che pare intinto nel miele per evocare l’irresistibile fascino della respinta principessa argiva. Vanta una presenza calamitante e temperamentosa, in grado di rivaleggiare con la potenza espressiva di Ilia: fino al frenetico martellare delle fioriture dell’incandescente aria finale, «D’Oreste, d’Aiace», che suggellano la grandiosità tragica di un personaggio di stampo raciniano.
Di buon livello è il resto della distribuzione, a cominciare dall’Arbace di Giovanni Sala, che si cimenta con entrambe le arie: a suo agio nel repertorio mozartiano, con levigata linea di canto restituisce spessore al messaggio utopistico – se non velatamente massonico – sui destini della società cretese. Ancora, meritano una menzione la travolgente resa scenica del Gran sacerdote di Carlos Natale e le sonorità abissali della Voce di Renzo Ran, risolutivo deus ex machina della tragedia. Di grande garbo le Due cretesi tratteggiate da Manuela Ciotto e Gabriella Barresi, così come efficacemente si fondono le voci dei Due troiani di Cosimo Diano e Carlo Morgante.

Lo spettacolo di Pier Luigi Pizzi – impaginato per la riapertura del Teatro delle Muse di Ancona, nell’ormai lontano 2004, e qui ripreso con il supporto delle luci di Massimo Gasparon, mentre Deda Cristina Colonna firma gli stucchevoli movimenti coreografici – merita di esser visto unicamente come preziosa sintesi della ‘maniera’ del regista-scenografo: e, ahimé! non della migliore. È, infatti, messinscena d’impronta neoclassica, non solo per il ricorso a una visualità improntata a una patinata classicità, modernamente rivisitata; ma soprattutto come sintesi di uno stile, che risale alla memorabile Semiramide del Festival d’Aix-en-Provence del 1980 e che, da allora in poi, è diventato autentico marchio di fabbrica dell’artista milanese. L’azione viene dunque collocata tra le colonne e sotto l’architrave di un tempio greco: in un gioco di scale – che sarebbero perfette per Wanda Osiris, ma che rallentano gli spostamenti del coro e si rivelano perigliose per i solisti meno atletici – funzionale a moltiplicare lo spazio scenico tra il proscenio, teatro degli affetti privati, e un piano rialzato, sullo sfondo, in cui è cristallizzata un’onda, vagamente ispirata a quella di Hokusai. Tutto di straordinaria eleganza, come sempre: in un bianco e nero appena squarciato dal viola quaresimale di Elettra e dal rosso carminio del mantello di Idomeneo, in un profluvio di lance e di elmi, sfilate di armigeri di profilo – come nella miglior coroplastica antica – e coristi geometricamente distribuiti a destra e a manca; fino alle apparizioni divine, care all’immaginario di Pizzi, con muscolosi giovanotti ignudi a domare la furia degli elementi. Tutto elegantissimo, si diceva, ma anche non poco macchinoso, e dunque faticoso e prevedibile: privo, soprattutto, di quel soffio teatrale che il regista sembra aver ritrovato nelle ultime, più recenti sue produzioni, e che qui invece raffredda questo Mozart in una serie di tableaux vivants di plastico effetto visivo.
Che Pizzi sia altro e oltre, oggi, lo ha dimostrato al momento degli applausi: non solo perché solca il palcoscenico esibendo sgargianti calzini rosso cardinale – anche questi, se vogliamo, alla maniera di sir William Christie; ma soprattutto perché, quando gli viene offerto un sontuoso mazzo di candidi lilium, lo accoglie interdetto, lo omaggia a una corista e, presi per mano gli altri interpreti, li consegna ai vibranti applausi finali.

Teatro Massimo – Stagione di opere e balletti 2019
IDOMENEO
Dramma per musica in tre atti di Giambattista Varesco
Musica di Wolfgang Amadeus Mozart

Idomeneo René Barbera
Idamante Aya Wakizono
Ilia Carmela Remigio
Elettra Eleonora Buratto
Arbace Giovanni Sala
Gran sacerdote di Nettuno Carlos Natale
La voce Renzo Ran
Due cretesi Manuela Ciotto, Gabriella Barresi
Due troiani Cosimo Diano, Carlo Morgante

Orchestra e Coro del Teatro Massimo di Palermo
Direttore Daniel Cohen
Maestro del coro Piero Monti
Regia, scene e costumi Pier Luigi Pizzi
Regista collaboratore e luci Massimo Gasparon
Movimenti Deda Cristina Colonna
Allestimento del Teatro delle Muse di Ancona
Palermo, 18 aprile 2019

 

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