Tramontata la moda del minimalismo, oggi a teatro è tutto un moltiplicarsi di allestimenti “concettuali”, anche se fino a poche stagioni fa il termine concettuale nemmeno esisteva nelle recensioni operistiche e nel vocabolario dei registi. Come nel caso del minimalismo, l’idea dell’arte fondata sul pensiero – definita intorno alla metà degli anni ’60 da Joseph Kosuth – è approdata al teatro d’opera con mezzo secolo di ritardo. Ma quand’è che un allestimento è concettuale? La risposta è in fondo semplice: se nel programma di sala trovate note di regia cervellotiche, e poi quello che vedete in scena non ha alcuna attinenza con la vicenda del libretto, ecco quello è un allestimento concettuale.
Nel leggere alcune dichiarazioni rilasciate da Filippo Tonon sulla Turandot proposta al Teatro Verdi per la Stagione lirica di Padova, si poteva pensare a un allestimento di questo tipo. Il regista e scenografo dello spettacolo spiegava di voler riprodurre in scena la situazione della mente umana imprigionata in traumi da cui è difficile uscire: un’allusione al meccanismo che blocca Turandot in una “coazione a ripetere” destinata a interrompersi solo con la soluzione degli enigmi da parte di Calaf. Salvo poi riprendere una volta scoperto il nome del Principe Ignoto ed essere definitivamente vinta dalla consapevolezza di sé e da un scelta dettata dal libero arbitrio.
Si pensava insomma a una impostazione concettuale, o pseudo tale, ma anche psicanalitica. E invece questo allestimento proveniente dall’Opera Slovena di Maribor a conti fatti non ha niente di contorto o astruso: il rimando ai meccanismi della mente emerge in modo vago solo nel terzo atto, dove scorrono tre pannelli quadrangolari neri, percorsi da file di led luminosi che sembrano alludere a volute cerebrali. Per il resto, lo spettacolo di Tonon denota una impostazione tradizionale e, pur nell’essenzialità degli elementi scenici, ha un buon impatto spettacolare. I tre praticabili mobili, spostati da figuranti, sono funzionali alla creazione di spazi evocativi di atmosfere fiabesche e di fantasia che rispettano il carattere esotico della vicenda: i richiami al décor cinese sono affidati a pochi arredi scenici e soprattutto ai bei costumi di Cristina Aceti. La regia di Tonon è ben gestita sia nelle scene di massa che nei movimenti e nella recitazione dei singoli, anche quando concentra lo spazio drammaturgico all’interno delle strutture quadrangolari, creando quasi dei tableau vivants. Al di là delle dichiarazioni, insomma, uno spettacolo ben pensato e realizzato, e di sicura presa sul pubblico.
Alla guida dell’Orchestra del Teatro Nazionale di Maribor, Alvise Casellati non offre una lettura problematica di Turandot. Preferisce andare al sodo: la narrazione musicale procede con compattezza e risulta costruita per grandi architetture, senza troppe sottigliezze nell’articolazione dei piani cromatici. Vengono attenuate così le ascendenze debussiane – pur presenti in partitura – ma anche certe durezze che contribuiscono a definire il novecentismo dell’orchestrazione. Tutto procede con solida professionalità e speditezza, anche se non si percepisce quell’ansia di rinnovamento che invece trasuda dall’opera postuma di Puccini.
La protagonista è Rebecca Nash, un soprano australiano che sembra rifarsi al filone delle Turandot straussiane che ha avuto inizio con Lotte Lehmann e Maria Jeritza. Dotata di voce corposa, dal timbro tagliente e scuro, domina agevolmente la scrittura impervia della parte, a onta di qualche asprezza che risulta comunque funzionale al tratteggio di una principessa algida e un po’ virago. Va da sé che l’interprete è meno incline a restituire le fragilità e le screziature liriche del duetto finale.
Il tenore uruguayano Gaston Rivero è un Calaf dal timbro brunito, incline alla declamazione eroica e martellata. Data la gamma limitata di sfumature nell’emissione e di chiaroscuri nel fraseggio, è portato a sorvolare sulle dolcezze di “Non piangere Liù”, mentre riesce a mettere più a fuoco il lirismo di “Nessun dorma”, concluso con un si naturale abbastanza squillante. La Liù di Erika Grimaldi è vocalmente corretta, sicura negli acuti e nei filati, ma anche un po’ generica nel fraseggio: l’interprete manca infatti di abbandono e non esprime compiutamente il toccante patetismo richiesto al personaggio.
Tra gli altri ruoli, hanno un singolare rilievo le tre maschere, ottimamente caratterizzate da Leonardo Galeazzi, eccellente Ping, Emanuele Giannino, Pang, e Carlos Natale, Pong. Autorevole, nonostante qualche occasionale ruvidità, Abramo Rosalen nei panni di Timur. Apprezzabile il Mandarino di Cristian Saitta, puntuale Antonello Ceron nei panni dell’Imperatore. Completa la locandina Tiberiu Marta, Principe di Persia.
Successo caldissimo per tutti.
Teatro Comunale Giuseppe Verdi – Stagione Lirica 2019
TURANDOT
Dramma lirico in tre atti e cinque quadri
Libretto di Giuseppe Adami e Renato Simoni
Musica di Giacomo Puccini
Turandot Rebecca Nash
Imperatore Altoum Antonello Ceron
Timur Abramo Rosalen
Calaf Gaston Rivero
Liù Erika Grimaldi
Ping Leonardo Galeazzi
Pang Emanuele Giannino
Pong Carlos Natale
Mandarino Cristian Saitta
Il principe di Persia Tiberiu Matta
Orchestra, coro e ballo Teatro Nazionale di Maribor
Direttore Alvise Casellati
Regia, scene e luci Filippo Tonon
Costumi Cristina Aceti
Allestimento Teatro Nazionale di Maribor
Padova, 27 ottobre 2019