Probabilmente non era stato fin qui sufficiente il tribolato mashup, fra varianti al titolo e mutazioni al libretto di ogni sorta, subìto alle origini – ma ancora “grazie” alle drammaturgie più recenti – da una delle più belle opere di Verdi, Un ballo in maschera sul testo di Antonio Somma, inizialmente destinata alle Reali scene di Napoli sotto il titolo di Gustavo III ma con l’idea decisamente poco felice di abbinare al tema di un amore illecito non consumato quello del regicidio proprio fra gli anni del colpo di baionetta sparato da un semplice soldato al sovrano Ferdinando II (1856) e il fallito attentato alla vita di Napoleone III a Parigi (1858), per mano del rivoluzionario italiano Orsini. Il tutto ispirandosi al grand-opéra Gustave III, ou le bal masque firmato nel 1833 dal rodato tandem Scribe-Auber, quindi rimbalzando sotto la sferza di una severissima censura, e nel giro di pochi mesi in quello stesso 1858, dalla Svezia del 1792 all’era pre-cristiana in un generico nord Europa poi fissato in Pomerania; e, ancora, dai conflitti tra guelfi e ghibellini dell’ultimo Trecento fiorentino, alla Boston americana al termine del XVII secolo. Naturalmente, con debita metamorfosi onomastica dei personaggi e, di volta in volta, diventando: Una vendetta in domino, Adelia degli Adimari e fino al poi snellito Una festa da Ballo in maschera, in prima rappresentazione al Teatro Apollo di Roma e dunque alle porte del Regno delle Due Sicilie a dispetto della censura borbonica, nel febbraio di 160 anni fa.
Di qui l’idea di riportare il Ballo verdiano al Teatro San Carlo – sulle cui assi ricordiamo almeno il trionfo di Pavarotti nel 1994 con il suo insuperato Riccardo e nel 2004 la statica “ricostruzione ipotetica” di Gossett-Narici in prima italiana con il titolo primigenio di Gustavo III – in una formula che ne ripristinasse l’ambientazione svedese quanto l’epoca volute da Verdi in origine per Napoli, tra l’altro in periodo di maschere e Carnevale con tanto di personale di sala nei costumi riciclati dal recente Pagliacci. A pensarci stavolta, anche nel proseguire quel tribolato destino citato in attacco, è stata la coproduzione targata Malmö Opera e Opera di Roma con le scene di Federica Parolini, i costumi Silvia Aymonino, le luci di Alessandro Verazzi e la regia (nell’occasione ripresa da Alessandra De Angelis) del pugliese Leo Muscato, formatosi nella compagnia di Luigi De Filippo, Premio della critica Abbiati nel 2007 ma per il teatro di parola e lo scorso anno nel mirino per la sua contestata Carmen al Maggio Fiorentino con finale anti-femminicidio più colpo di scena e pistola clamorosamente mancato alla “prima”.
In tal caso, in termini registico-scenici, nessuna sorpresa. Ma tanti i difetti, così come in evidenza sin dal varo romano di tre anni fa: in primo luogo, quell’incipit scontato e un po’ “soap” (“C’era una volta un Re, il suo miglior amico e una donna”) proiettato in apertura di sipario a caratteri cubitali sul fugato degli archi in allusione al complotto dei congiurati e sul fermo immagine di un metaforico duello di figura, come se il pubblico fosse talmente a digiuno dei fatti storici e delle nostre radici operistiche da renderne necessariamente facilitato l’ingresso nell’azione attraverso i codici della fiaba (e non della favola, come si continua a confondere anche nelle note di regia, per sua natura strutturata in versi e non in prosa, con protagonisti animali e non umani di fantasia, con morale finale anziché dialettica fra il bene e il male). Pertanto, cercando e tirando fuori dal Ballo i topoi del Re (Riccardo qui Gustavo) e della sua amata (Amelia), il suo migliore amico (Renato che, per quanto mai citato in scena, diventa Carlo, duca di Ankastrom), la strega cattiva (Ulrica), gli oppositori (Tom e Sam nobilitati nei rispettivi Conti Horn e Ribbïng), il bosco pericoloso, il castello, il ballo. E, intorno, l’amore, l’odio, il tradimento, l’onore, il tragico, il romantico. Insomma, incipit da dimenticare e, possibilmente, da tagliare assieme a quell’assurdo “Addio… diletta America”, terra epurata dal libretto ma evocata al termine e praticamente dall’altro capo del mondo dal morente Gustavo III di Svezia, fra canto, sovratitoli e i suoi ultimi respiri. Non chiara, in fondo, neanche l’ambientazione “alla Tosca” nella dimora reale di un sovrano amante dell’arte, pertanto zeppa fino all’ossessione di quadri, così come in quella generica del Conte, con masse sempre troppo schiacciate e scomposte, quindi in stile Trovatore nell’antro magico della qui non nera Ulrica. Il che vale anche per la coerenza dell’epoca, spaccata fra i bei costumi e arredi settecenteschi nei primi due atti a fronte di un ballo in abiti bianconeri primo Novecento con gestualità delle coriste twistata, su fondale disco pop e danze delle maschere troppo veloci. Così come parimenti poco plastica, al di là del significativo impegno delle interpreti di Ulrica e Oscar, la tornitura dei personaggi principali.
Quanto alle luci, qui riprese da Marco Alba, va fatto un discorso a parte poiché le dichiarate intenzioni dagli effetti “espressionisti”, in realtà, sono sfociate in un contrasto persino fastidioso alla vista, con golfo mistico troppo illuminato (il fuoco dello sguardo dalla sala tendeva infatti a bloccarsi sulle spalle del direttore), molto buio in palcoscenico e tagli sovraesposti sui protagonisti, con effetti di chiaroscuro migliori nell’abituro dell’indovina (ad ogni modo, in banale reminiscenza Disney) o nei luoghi stilizzati del campo del patibolo su cromie fondenti e cangianti.
In compenso e all’opposto, lineare e sempre molto misurata, al di là di qualche sporadica sfasatura fra buca e palcoscenico, la condotta sonora garantita dall’esperto Donato Renzetti sul podio di Orchestra e Coro (preparato da Gea Garatti Ansini) della Fondazione. Una direzione talvolta fin troppo asciutta nei contrasti fra le ombre, il mistero e gli abbandoni pur possibili in partitura ma, nel complesso, particolarmente arguta nello spingere sulle cabalette o nell’esaltare quella verve da operetta, e finanche da can-can offenbachiano o in vertigine da tarantella, secondo quanto solo da pochissime bacchette intuito e in concreto realizzato ad esempio nel primo atto fra l’Allegro brillante di Riccardo (“Ogni cura si doni al diletto”), nella relativa Stretta “Dunque, signori, aspettovi” con Coro maschile in ottima forma anche nel commento della tragica profezia e nella travolgente cabaletta a coronamento del terzetto “Odi tu come sonano cupi”.
Venendo alla resa delle voci scelte per il primo cast, il Gustavo del tenore Roberto Aronica prende gradualmente quota sfoderando, pur senza scolpire da lì in avanti memorabili evoluzioni sul piano psicologico e scenico, begli slanci e colore esatto all’acuto a fronte di centri inizialmente un po’ incerti nello staccare la sua celebre sortita “La rivedrà nell’estasi”. I suoi momenti migliori si scopriranno negli accenti ritmici della Canzone “Dì tu se fedele”, nel quintetto beffardo con coro “È scherzo od è follia”, nel duetto con Amelia nell’orrido campo e in chiusa d’opera. Analogamente è, come d’altra parte prevedibile, nella zona più alta e virtuosa che convince l’Oscar del soprano in ruolo en travesti Anna Maria Sarra, ben salda nell’infiorettare con smalto e precisione i pentagrammi della sua ballata “Volta la terrea fronte” e, di lì, piroettando con disinvoltura negli assieme e nella Canzone a un passo dal finale ultimo.
Gran volume ma minori duttilità e finezza nella cura del fraseggio è quanto invece si ascolta dall’Ankastrom del baritono Luca Salsi. E se l’Ulrica del mezzosoprano Agostina Smimmero svetta su tutti per grinta, profondità al grave, omogeneità e sostanza canora, anche se nel cupo incedere della sua prima invocazione “Re dell’abisso” esordisce tendendo a chiudere un po’ troppo i suoni, l’Amelia del soprano Carmen Giannattasio, esordiente nel ruolo, prende forma con esiti discontinui e divaricati. Il suo improvviso ingresso nell’antro dell’indovina vacilla per intonazione e acuti tirati, divenendo addirittura imbarazzante (scena ottava e terzetto in coda all’atto I) così come, sul fronte opposto, tocca apici di sorprendente forza e bellezza in apertura dell’atto secondo (di tagliente drammaticità sia la recitazione nella scena “Ecco l’orrido campo” che il canto con corno inglese obbligato nell’aria “Ma dall’arido stelo divulsa”), nel successivo duetto d’amore con cabaletta proiettando suoni di fuoco al fianco del parimenti accorato Gustavo, sciogliendosi nell’intensità della Preghiera all’atto terzo dinanzi al furibondo marito Ankastrom. Il ruolo dell’Amelia-Giannattasio, in pratica, c’è, ma andava senz’altro provato e maturato di più.
Efficaci, nell’insieme, le prestazioni dei comprimari, dall’Horn di Laurence Meikle al Rïbbing di Cristian Saitta accanto a Nicola Ebau (Christian, un marinaio), Gianluca Sorrentino (giudice) e a Lorenzo Izzo (servo di Amelia). Applausi per tutti al termine.
Teatro San Carlo/ Stagione d’opera e danza 2018/19
UN BALLO IN MASCHERA
Opera in tre atti su libretto di Antonio Somma
da Gustave III, ou Le Bal masqué di Eugène Scribe
Musica di Giuseppe Verdi
Gustavo III Re di Svezia (Riccardo) Roberto Aronica
Carlo, Duca di Ankastrom (Renato) Luca Salsi
Amelia Carmen Giannattasio
Ulrica, indovina Agostina Smimmero
Oscar Anna Maria Sarra
Il Conte Horn (Sam) Laurence Meikle
Il Conte Ribbing (Tom) Cristian Saitta
Cristiano, un marinaio (Silvano) Nicola Ebau
Un Giudice Gianluca Sorrentino
Orchestra, Coro e Balletto del Teatro di San Carlo
Direttore Donato Renzetti
Maestro del Coro Gea Garatti Ansini
Regia Leo Muscato
Scene Federica Parolini
Costumi Silvia Aymonino
Luci Alessandro Verazzi
Movimenti coreografici Alessandra De Angelis
Assistente alla regia Niklas Johansson
Coproduzione Malmö Opera e Teatro dell’Opera di Roma
Napoli, 22 febbraio 2019