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Napoli, Teatro San Carlo – Madama Butterfly

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L’ultima delle metamorfosi attraversate da sempre e secondo natura di ogni farfalla dalla Madama Butterfly di Giacomo Puccini, a partire dai rimaneggiamenti dello stesso autore in pentagramma all’indomani del clamoroso fiasco alla prima assoluta scaligera del 1904 e fino alle molteplici versioni sonore e registiche più o meno centrate ai nostri giorni, porta per diversi aspetti assai lontano dalla quindicenne geisha Cio-Cio-San di profonda caratura tragica e fragile vittima del fatale scontro fra Oriente e Occidente, spezzata dal prepotente capriccio di una civiltà per progresso creduta superiore. Vale a dire, una Butterfly lontana dalla creatura consegnata alla drammaturgia musicale filtrando nel libretto di Illica e Giacosa il romanzo di Pierre Loti (Madame Chrysanthème), il racconto di John Luther Long (Madame Butterfly) e il dramma omonimo di David Belasco perché trasformata piuttosto, alla luce dei tempi, in donna determinata e a noi svelata nella costruzione di un amore e di un destino dai solchi addirittura ostinati, ai danni di un Pinkerton persino passivo e amoroso più che vile duca di Mantova americano, salvo restando il harakiri finale con sapienza nell’occasione rappresentato con squarcio alla gola e non al ventre, secondo il diverso rituale samurai a gambe legate in Giappone praticato dalle donne.

A restituirla dunque a occhi nudi, con sostanziale disincanto e una mano che ha inteso far rimbalzare una maggiore verità psicologico-gestuale fra le relazioni umane rappresentate sullo sfondo di una grigia Nagasaki portuale con mare in tempesta, per nulla fiorita e posdatata dopo l’atomica agli anni Cinquanta, è stato il nuovo allestimento prodotto e tenuto a battesimo al Teatro San Carlo di Napoli con la regia del cineasta turco-italiano Ferzan Ozpetek, al suo terzo confronto con la lirica dopo il doppio Verdi di Aida e Traviata, con le suggestive scene di Sergio Tramonti, i pertinenti costumi di Alessandro Lai, le luci esatte di Pasquale Mari e con Gabriele Ferro sul podio di Orchestra e coro (preparato da Gea Garatti Ansini) della Fondazione.
Nelle premesse, fra ideazione e voci del cast, tanta l’attesa e molto il rumore soprattutto per l’annunciato erotismo “fremente” nel duetto d’amore “Bimba dagli occhi pieni di malìa” a corpi scoperti in chiusa al primo atto. In realtà, per quanto chiaro il successo di pubblico fra sold out e applausi calorosi, tolto qualche soffocato dissenso finale, l’invenzione registica e gli esiti canori sono andati a segno a macchia di leopardo, oscillando fra la bellezza delle quattro figuranti in platea ad amplificata rifrazione della protagonista sulla scena e, d’altra parte, il vocalmente assai incerto incipit al primo ingresso con il vacillare fonico-tonale sia di Cio-Cio-San che del coro femminile, il troppo spento primo atto a fronte delle ottime sortite di tenore, baritono e mezzosoprano, un Goro che tanto ha ricordato Renato Zero, il famoso duetto in nudo sfuggente e parziale, frenato tanto nell’amplesso quanto nel canto dinanzi, viceversa, alla qualità e sensibilità folgorante del videoritratto realizzato da Luciano Romano durante un notevolissimo Coro a bocca chiusa con l’attrice Roberta Astuti in primo piano e a contrasto fra l’azzurro chiaro del mare e il rosso fuoco di trucco e kimono, incamminatasi poi di spalle con solitario abbandono verso le onde. E fino a un terzo atto di miglior tempra drammatica sotto tutti gli aspetti: per maggiore intensità nel rapporto fra la musica e il canto, anche se in presenza di una gestualità più turco-zingaresca che nipponica, per l’essenzialità fra letto e pareti in asfittica regolazione con soluzioni comunque già viste, per il bel colpo di teatro finale giocato oltre finzione, facendo entrare dal fondo della sala all’improvviso e di corsa, quando ormai è troppo tardi, Pinkerton che per tre volte chiama disperato, fra tutti noi anziché dietro le quinte, la sua Butterfly giacente al proscenio, sotto una tagliente lama di luce bianca.
Di tiro analogo, in effetti, è il rumore del mare che accompagna i minuti precedenti lo spettacolo, mentre il pubblico guadagna il proprio proposto, l’orchestra entra in buca e i flash accerchiano il regista. Poi, il via allo spettacolo, a partire dalle quattro ragazze in kimono rosso che percorrono i lati della platea e a cominciare dal nervoso scatto strumentale in fugato che scolpisce, tra il finto Settecento europeo e le tintinnanti giapponeserie d’intrattenimento, l’urto dissacrante ma anche ironico fra i due mondi.

Originale, anche in tal senso, la direzione di Gabriele Ferro che guida un’orchestra complessivamente sollecita verso orizzonti di nobile semplicità, mirando più che alla sostanza di affondi e tensioni alle quali comunque le voci di prima linea poco rispondono per diversa propensione stilistica, alla chiarezza dei temi, degli intarsi, ai ponti sinfonici fra l’ultimo Ottocento musicale eurocentrico (da Wagner a Massenet) e la grande scuola nazionale russa, al di là dell’opportuno rilievo al vessillo sonoro dell’inno americano o alle scale pentatoniche in rappresentanza orientale. Quasi a voler sublimare la moderna apertura della densa partitura teatrale pucciniana distillandone venature e dinamiche dal respiro mahleriano e straussiano.

In merito alle voci e procedendo secondo la gerarchia dei ruoli, non solo l’allestimento ma soprattutto la Cio-Cio-San del soprano sanpietroburghese Evgenia Muraveva ha fatto ripensare con grande nostalgia alla produzione a scatola bianca e purissima firmata nel 2016 da Pippo Delbono, con una strepitosa Svetla Vassileva. Al di là dello squillo all’acuto, la Muraveva tende infatti ad alleggerire, a non rifinire del tutto gli incisi melodici e a non agganciare la propria emissione, già parzialmente omogenea, all’indispensabile tensione drammatica che il ruolo del titolo assolutamente richiede – il suo canto d’attesa a denti stretti “Un bel dì vedremo” non vibra di né di sogni e sospiri, né di dubbi e disperazione – tuttavia in gran parte recuperando quota e temperamento nel corso dell’ultimo atto grazie agli accenti della recitazione e all’abbandono delle sponde melodiche occidentali per il rientro sulle zolle sonore arcaiche e orientali della sua terra.
Ancor più fuori dagli schemi, poi, il Pinkerton del tenore Saimir Pirgu, di slancio nobilmente eroico e affabile dalla prima all’ultima sua nota, di tempra romantica persino nella sortita libertina “Dovunque al mondo lo yankee vagabondo” e nel duetto con il baritono “Amore o grillo – donna o gingillo”, meno sciolto del solito nel duetto d’amore preoccupato com’era a scoprire gradualmente il suo corpo, rimasto in perizoma, mentre la Muraveva s’innalzava su di lui a seno nudo e di tinta soave perfino nel breve e posticcio arioso “Addio, fiorito asil”.
Maggiore corrispondenza fra ruolo e voce sfodera il baritono Giovanni Meoni, Sharpless in elegante abito borghese, di ottima intonazione, ricca emissione e di non comune aplomb scenico. Parimenti vincente ne esce il mezzosoprano Raffaella Lupinacci, particolarmente apprezzata per tecnica, timbro e tornitura espressiva atti a dar forma e voce compiuta alla fedele domestica Suzuki, personaggio che il regista Özpetek ha voluto rivedere attribuendovi, attraverso piccoli gesti protettivi, un affetto di natura omosessuale per la padrona geisha Cio-Cio-San. E sempre sul dato omosessuale era spinto ironicamente il Goro di Luca Casalin, efficace per lo più scenicamente. Completavano il cast, lo zio Bonzo dell’appropriato Ildo Song, Nicolò Ceriani per il Principe Yamadori, Rossella Locatelli, Kate Pinkerton in tailleur oro perlaceo, Enrico Di Geronimo (il Commissario Imperiale), Antonio De Lisio (l’Ufficiale del registro), Annamaria Napolitano (la madre di Cio-Cio-San), Lucia Gaeta (la Cugina) e il piccolo, disciplinatissimo Lorenzo Mattia Moreschi (Dolore).
Una citazione a parte spetta infine alle brave e belle attrici figuranti, Simona Barattolo, Roberta Siciliano, Mariachiara Vigoriti e in special modo a Roberta Astuti e a Luciano Romano che, su idea dell’autore del recente Napoli velata, ha mirabilmente ritratto quest’ultima in raffinata chiave onirica nel video sul Coro a bocca chiusa chiedendole “di immaginare di guardarsi allo specchio come in un momento di lutto o di abbandono, quando si sente di aver perduto tutto ma la volontà di andare avanti è più forte, fino a riconoscersi nell’immagine riflessa per darsi forza”. Ed è in quell’acqua che la ragazza-visione di Butterfly, in scena gettata sul letto in attesa, s’incammina per superarne i confini. Quel mare che ne sbarra l’amore, che ne sommergerà l’esistenza.

Teatro San Carlo – Stagione d’opera e balletto 2018/19
MADAMA BUTTERFLY
Tragedia giapponese in tre atti su libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica,
tratta dalla tragedia Madame Butterfly di David Belasco
Musica di Giacomo Puccini

Cio Cio-San Evgenia Muraveva
F. B. Pinkerton Saimir Pirgu
Suzuki Raffaella Lupinacci
Sharpless Giovanni Meoni
Goro Luca Casalin
Lo zio Bonzo Ildo Song
Il Principe Yamadori Nicolò Ceriani
Kate Pinkerton Rossella Locatelli
Il commissario imperiale Enrico Di Geronimo
L’ufficiale del registro Antonio De Lisio
La madre di Cio-Cio-San Annamaria Napolitano
La cugina Lucia Gaeta
Dolore Lorenzo Mattia Moreschi

Orchestra e Coro del Teatro di San Carlo
Direttore Gabriele Ferro
Maestro del Coro Gea Garatti Ansini
Regia Ferzan Ozpetek
Costumi Alessandro Lai
Scene Sergio Tramonti
Luci Pasquale Mari
Nuova produzione del Teatro di San Carlo
Napoli, 16 aprile 2019

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