Napoli, Teatro San Carlo – Les Contes d’Hoffmann
Una concentrazione piuttosto rara di grandi e varie voci accanto al centro esatto di un taglio scenico-registico che, con mezzi minimi, sa come restituire al meglio segno, gesto, magia e polvere di un palcoscenico francese ottocentesco in cui si mescolano l’inquieto fantastique del gotico tedesco e il realismo spicciolo dell’opéra-comique, gli accenti ironici dell’operetta e i sentimenti lievi del genere lyrique. Vale a dire, secondo quanto indicato e impresso tra le fonti e come su dagherrotipo ben in luce nella produzione dell’Opéra de Montecarlo proposta per Les Contes d’Hoffmann al Teatro San Carlo di Napoli, singolare l’attenzione per le cicatrici più volte rimodulate e ricucite entro il tessuto drammaturgico-musicale del capolavoro serio in cinque atti su libretto di Jules Barbier, ampiamente rimaneggiato nei dosaggi fra registri, recitazione e canto, quindi lasciato nel 1880 incompiuto in partitura da Jacques Offenbach e terminato da quel Guiraud che innestò la celebre Barcarola da altra opera dello stesso autore oltre ad aver messo mano anche alla Carmen di Bizet strumentandone gli originari recitativi in parlato. Una proposta in stagione lirica che stavolta, dopo le due edizioni al San Carlo in epoca moderna entrambe dirette da Peter Maag, nel 1960 con l’Antonia di Mirella Freni e nel 1997 con l’Olympia di Valeria Esposito, non ha scelto la versione Choudens, con l’atto veneziano al centro, bensì la linea filologica nel solco della più opportuna prassi fedele all’Oeser-Alkor. Il tutto, in occasione dei duecento anni dalla nascita del compositore del can-can e con doppia dedica: al maestro Maag nel centenario della nascita e al tenore Alfredo Kraus a vent’anni dalla scomparsa.
Alla luce di qualche buh andato a colpire soltanto gli artefici dello spettacolo durante le uscite finali al proscenio, uno sguardo attento merita innanzitutto l’allestimento. A firmarlo, con mano invece dotta e molto sensibile nella tornitura di ogni singolo personaggio, nel recupero della percezione gestuale ottocentesca e della mistura di quelle non facili tracce genetiche citate, è stato il regista Jean-Louis Grinda, accanto alle stringate ma funzionali soluzioni sceniche più luci, parimenti assai efficaci, di Laurent Castaingt e ai notevolissimi costumi di David Belugou, in puro stile ottocentesco con qualche tocco di brillante fantasia comica per coriste e comprimari.
E mentre i leggeri panneggi teatrali, l’opulento ornato interno al Grand Théâtre de Monte Carlo realizzato da Garnier e qui riprodotto sullo sfondo, una semplice pensilina sospesa e la costante presenza di personaggi-spettatori lungo le quinte laterali restavano a ricordare in trait-d’union fra gli atti, analogamente alla cupa sigla sonora zauberflötiana in buca, la sdoppiata prossemica fra realtà e spettacolo, azione e allucinazione, serio e faceto, ha preso vita e vigore il passaggio attraverso i tre tasselli incorniciati da Prologo ed Epilogo nella taverna di Maître Luther evocata fra canto e disincanto con il giusto clima godereccio e un po’ alticcio, un tavolaccio e una moltitudine di sedie in legno accatastate alla Café Müller. Nel mezzo e in successione, il sinistro gabinetto del fisico Spalanzani con box a lanterna cinese contenente la bambola meccanica Olympia mentre dall’alto penzolano grotteschi automi, un pipistrello, scheletrini o altri esemplari imbalsamati, quindi l’austera casa del vecchio liutaio Crespel ristretta fra un pianoforte a mezza coda parimenti in controluce e una lastra-sepolcro da cui esce la madre morta della struggente Antonia, fisicamente ben presente oltre la voce, per poi arrivare alla sensualità morbosa di uno spregiudicato notturno veneziano in attrito con le dolci note della Barcarola, con luna piena proiettata sulla pensilina e laguna in tessuto blu brillante a sfondo del fatale raggiro della cortigiana Giulietta, fatto di amore ingannevole, immagine rubata, delitto e morte.
Quindi a scolpire con ulteriore pregnanza il viaggio entro la triplice, illusoria quanto infelice e fallace vertigine d’amore che solo nella verità dell’Arte, e della scrittura nello specifico, trova e restituisce il vero senso della vita, tutte le numerose voci in campo, a partire dall’Hoffmann superlativo e romanticissimo messo a segno dal tenore americano John Osborn con timbro, tecnica, stile e fraseggio esemplari. In scena con pari padronanza e bellezza di tinte praticamente lungo l’intera opera, è un Hoffmann di non comune intelligenza musicale e attoriale, sinceramente amante, ingenuamente attratto dalle diverse forme dell’amore, seriamente sprezzante alla resa dei conti. E, soprattutto, ben consapevole dei mondi paralleli di Gounod e Massenet. Il bel canto di Osborn è infatti sin dal principio in vetta, su tutti, per l’impeccabile dizione francese, per la valorizzazione sensibile delle risonanze linguistiche ed emotive ricercate tra vocali, consonanti, pause e sospiri, oltre che per la ben nota intonazione al platino, i fiati perfetti, passaggi e ascese all’acuto mirabili. E in special modo prezioso per la sua arte della variazione tecnico-timbrica ed espressiva in grado di garantire luce e nobiltà ad ogni piega melodica, tonale, dinamica e di colore a partire dallo scatto ritmico della sua magnifica canzone goliardica e onomatopeica “Kleinzacht” e, via via, regalando mille altre gemme sia in assolo che in assieme.
Analogamente lodevole il basso-baritono Alex Esposito nella sua quadruplice apparizione in odore di zolfo, di volta in volta nei panni di Lindorf, Coppélius, Dottor Miracle e Dapertutto: emissione potente, pulita e persino suadente nell’avvolgere sempre con fascino accattivante e piena sostanza i diversi capitoli e le sue mutevoli trasformazioni. E così per il bel fronte femminile del trio charmant d’enchantreness: l’Olympia rosa confetto del soprano napoletano Maria Grazia Schiavo mette a fuoco con la bravura che da sempre le riconosciamo, maturata entro il suo prezioso tirocinio barocco, acuti e picchettati limpidi e leziosi, ma privilegiando un gioco più umano e liricamente civettuolo anziché pirotecnico e meccanizzato. Statura da grande primadonna sfodera quindi a seguire, per la drammatica storia di Antonia, la splendida Nino Machaidze, voce sopranile di pasta intensa, omogenea e al tempo stesso affilata come una lama nel ritagliare impeccabile la sua Romanza “Elle a fui, la tourterelle” e il duetto adorabile con Hoffmann, così come lo struggente confronto con la madre dopo il notevolissimo Trio/Terzetto maschile cesellato da Miracle, Crespel e l’eroe eponimo. Molto interessante anche la Giulietta della giovane e promettente Josè Maria Lo Monaco, mezzosoprano di bella e salda voce, giusto ancora un po’ acerba nello scontornare pienamente il ruolo. E ancora un plauso speciale per la bravissima Annalisa Stroppa, mezzosoprano spigliata e ben duttile nell’interpretare en travesti l’amico confidente di Hoffmann, Niklausse, quanto quello della spavalda Musa ispiratrice pronta a siglare il patto con il diavolo pur di salvare il grande talento dell’artista.
Più che apprezzabili, inoltre, tutti i personaggi di contorno: Michela Antenucci per la cantante Stella, un esilarante e versatile Orlando Polidoro parimenti delizioso nel ventaglio delle sue caricature (Andrès, Cochenille, Frantz e Pittichinaccio), di austera pregnanza il liutaio e padre Crespel di Roberto Abbondanza, di felice impatto lo Spalanzani ritratto da Enrico Cossutta con sarcastica verve alla Montarsolo. E ancora, bravi Fabio Zagarella per Hermann/Schlémil, Pasquale Scircoli per Nathanaël, Italo Proferisce per Luther, Federica Giansanti per la mère d’Antonia.
Orchestra del Teatro San Carlo complessivamente in rigorosa e massiccia tensione dinamica sotto la bacchetta di Pinchas Steinberg, mentre maggiori le sfumature evidenziate nel coro della Fondazione, preparato da Gea Garatti Ansini, con esiti esatti nella formazione maschile già dal Prologo mentre, al solito, da sistemare attacchi metrici e qualche intonazione in soluzione mista.
Al termine, caldi e convinti i consensi tributati a tutti gli interpreti tra scena e golfo mistico da un pubblico fra le cui presenze brillava, nel palco reale, la meravigliosa e recentemente applauditissima Cecilia Bartoli. [Rating:4/5]
Teatro San Carlo – Stagione d’opera e balletto 2018/19
LES CONTES D’HOFFMANN
Opéra fantastique in un prologo tre atti e un epilogo
su libretto di Jules Barbier
dal dramma omonimo di Barbier e di Michel Carré e da E.T.A. Hoffmann
Musica di Jacques Offenbach
Olympia Maria Grazia Schiavo
Antonia Nino Machaidze
Giulietta Josè Maria Lo Monaco
Stella Michela Antenucci
Hoffmann John Osborn
Lindorf/Coppélius/Dr. Miracle/Dapertutto Alex Esposito
Nicklausse/La Muse Annalisa Stroppa
Andrès/Cochenille/Frantz/Pittichinaccio Orlando Polidoro
Crespel Roberto Abbondanza
Spalanzani Enrico Cossutta
Hermann/Schlémil Fabio Zagarella
Nathanaël Pasquale Scircoli
Luther Italo Proferisce
La mère d’Antonia Federica Giansanti
Orchestra, Coro e Balletto del Teatro di San Carlo
Direttore Pinchas Steinberg
Maestro del coro Gea Garatti Ansini
Regia Jean-Louis Grinda
Scene e luci Laurent Castaingt
Costumi David Belugou
Produzione Opéra de Montecarlo
Napoli, 17 marzo 2019