La forza ancestrale della fonte letteraria verghiana con relativa tecnica prospettica dell’impersonalità, più l’affondo a punta di coltello nella verità sanguigna di ogni segno poetico-sonoro e gestuale sarebbero, in teoria, i cardini di base per riportare in scena qualunque Cavalleria rusticana di Mascagni che si rispetti, al di là delle diverse posizioni registiche o delle rimodulazioni drammaturgico-musicali possibili. Vale a dire, senza interferenze di sorta, che in primo piano dovrebbe pur sempre restare la palpabilità a sé stante e oggettiva di un dramma fatto di povera gente, pregno di religiosità popolare e di sentimenti semplici quanto staccati a fuoco vivo già solo a partire dalla dizione, fra primitiva istintualità, gelosie, rabbia e passioni scolpite dal canto pieno al declamato e fino all’urlo miserabile, fra adulteri presunti o reali, morsi selvaggi, vendette cruente, morti ammazzati. Il tutto, sullo sfondo realistico di un coevo Sud abbandonato e dunque, a maggiore ragione, stretto in coro fra santuari e processioni, feste paesane, inni al vino, con tanto di inserti dialettali, stornelli e scontri d’onore.
Il che resta in piedi solo parzialmente con la fastidiosa visione, spiccatamente egocentrica, del regista Pippo Delbono praticamente onnipresente in scena, varata fra pareri discordi dal Lirico di Napoli nell’estate 2012 con la scena unica e fissa di Sergio Tramonti premiata con l’“Abbiati”, gli efficaci costumi in stile secondo dopoguerra creati da Giusi Giustino e le giuste luci di Alessandro Carletti. Quindi riproposta ancora nel 2014 e, per la terza volta, in queste sere con miglior successo (anche se qualche sporadico buh pur sempre arriva al regista) e la bella novità di Juraj Valčuha sul podio, in occasione del San Carlo Opera Festival sesta edizione quale secondo dei due soli titoli (in apertura, il balletto Pulcinella di Stravinskij) entrambi in ripresa per una locandina 2019 da nove spettacoli ma chiaramente ridotta all’osso, forse a vantaggio della stagione futura.
Nelle premesse, una versione nuova; in realtà a nostra memoria, ferma restando la parte del regista onnisciente e onnipresente, identica all’allestimento originale, se si eccettua la sostituzione, dopo la triste scomparsa, del ruolo silente di Bobò con un fanciullo (Francesco Guglielmo) cercato dall’autore dell’allestimento attraverso molteplici provini e poi finalmente trovato fra i cantori del Coro di voci bianche del San Carlo.
Prima ancora della musica, Pippo Delbono entra infatti in platea, allora come ora alle spalle del direttore e nella penombra di un fascio di luce, per leggere con voce velata e accattivante una sorta di breve monologo su foglio che narra la sua personale esperienza d’infanzia legata ai luoghi e ai riti dell’opera di Mascagni. Esordendo, al microfono, così come segue: «Buonasera. Scusate l’intromissione, sono il regista di questo spettacolo. Prima di cominciare volevo raccontarvi due piccole storie legate alla Cavalleria rusticana. Un giorno camminavo in un paese abbandonato in Sicilia, un paese che era stato distrutto da un terremoto molti anni prima. In quel paese tutto era rimasto uguale, fermo, immobile, come se il tempo si fosse fermato là […]». A seguire, senza pause, un’esperienza a lui ancora più vicina, legata alla Settimana Santa, «la festa ricorrente – osserva retoricamente – in quest’opera. Una sera di qualche tempo fa – racconta con la stessa punta di emozione di sette anni addietro – ero con mia madre. Guardavamo dalla finestra il fuoco della Pasqua nella piazza della chiesa del piccolo paese dove sono nato. E ricordavamo quando da bambino facevo il chierichetto e portavo la croce nelle processioni pasquali. Qualche giorno dopo mia madre se n’è andata. Per sempre. E quella sera, in quella veglia pasquale, in quel fuoco io e lei vedevamo la Resurrezione, vedevamo la vita, la morte, la nostra separazione». Cita a seguire alcuni versi memorizzati a scuola, al ricordo di un paese straziato quanto il suo cuore, ringraziando per l’attenzione e tornando a scusarsi per le sue parole. Ma è solo l’inizio perché, parimenti alle precedenti edizioni, sale attraverso un praticabile laterale nell’ampia stanza lignea rosso cinabro sfumata di nero al soffitto, tanto simile a una tetra sacrestia con sedie in legno per il coro lungo il perimetro e pavimento inclinato, come a scaricare il peso degli eventi e della coscienza collettiva verso il pubblico. Ne attraversa gli spazi ad ampie falcate sulle note del Preludio, ne spalanca le porte perché, quella, è la camera della sua memoria: chiusa fra il buio dei ricordi e l’alto fuoco, vero, per due volte acceso al centro; nei momenti topici ne lascia entrare l’aria e la luce, ossia la realtà esterna, con gesti bruschi, ora sul fondo, ora lungo le quinte laterali. Intanto, lui c’è sempre: svolazzando fra il Coro alla prima scena e spargendo in aria petali di rose rosse in stile Tanztheater di Pina Bausch, dirigendo a seguire con furia il tempo della musica, inebriandosi nel rovesciarsi la cassetta dei fiori sul capo e, da lì, scendendo lungo il corridoio centrale in sala, sempre lanciando petali intorno. Ed è ancora lui ad accompagnare quel bimbo chierichetto innocente e impassibile portatore di fiori in proiezione del proprio sé, prendendone dalle mani la croce, quindi brindando al tavolo dove era solito sedersi il suo caro Bobò con quel vino generoso durante l’Intermezzo. E, ancora, ridendo, fremendo o soffrendo accanto ai personaggi durante i numeri in successione, come a estraniarli in una sospensione di brechtiana allure.
Siamo in pratica agli antipodi con quanto prescritto dalla tecnica dell’invisibilità dell’autore pensata per far parlare, secondo lo stile di testo e pentagrammi, l’opera da sé, nel rispetto degli intenti e degli idiomi musicali veristi promossi dietro le quinte degli ultimi anni Ottanta dell’Ottocento da un uomo di cultura relativamente noto, Amintore Galli. Una figura portante che, strategicamente a contrasto con la scuderia della Ricordi, avrebbe alimentato quei princìpi in concreto attraverso le colonne del Teatro illustrato (la rivista promotrice del concorso vinto nel 1890 dall’opera prima di Mascagni, di cui il Galli era caporedattore), in accordo con la casa editrice Sonzogno (essendone direttore artistico) e attraverso quel citato, fondamentale concorso cui dobbiamo nel 1889 la stesura e conseguente pubblicazione dell’atto unico di Cavalleria nel quale fu commissario con Platania, D’Arcais, Marchetti e Sgambati. Nonché precetti divulgati senz’altro anche in qualità di docente di Estetica al Conservatorio di Milano dove, fra i suoi allievi fra gli anni 1882-1885, figurava guarda caso anche Pietro Mascagni.
D’altra parte, originalmente calibrata alla luce di un taglio sinfonico più aggiornato e di respiro mitteleuropeo anziché semplicemente spinto su spiccioli effetti veristi si è rivelata la stessa, interessante visione del Direttore musicale Juraj Valčuha, alla testa di Orchestra e Coro (preparato da Gea Garatti Ansini) della Fondazione, andata pertanto per lo più a scrostare ridondanze di agogica e di accenti per lavorare piuttosto, al contempo, sulla bellezza dell’amalgama e sul vivo contrasto dei suoni, sulla tensione metrica e su una costruzione magistrale dei crescendo. In concreto, un approccio analitico non distante dalla sensibilità e intelligenza con cui il moderno Leoš Janáček prestò attenzione, in merito alla partitura della Cavalleria di Mascagni, al progresso armonico e tonale nella sua recensione stilata nel 1892, unitamente alla perfezione delle forme sia chiuse che libere. I tempi, i tracciati e i colori sono dunque sempre puliti e affilati, brillando nello specifico con tornitura scattante e puntuale nelle dinamiche come nelle strette interne alla sortita “Il cavallo scalpita” di Alfio, nella sostanza dei bei pannelli affidati al Coro – molto più preciso rispetto ad altre occasioni e al top nelle dinamiche in massima espansione d’assieme – nelle luci di apertura wagneriana o in affondi di densità franckiana, così come nella percezione più cinematografica che da Preghiera dell’Intermezzo o nei climax drammatici come nell’allucinazione fonica su cui poggia la disperata maledizione di Santuzza “A te la mala Pasqua”. Per poi esplodere, coronato dai debiti applausi, nel realmente roboante finale. Fra le cose perfettibili, nel complesso, un maggior volume per l’arpa nell’accompagnamento alla Serenata di Turiddu, una migliore cura della fibra in trasparenza all’acuto del Coro femminile, un occhio in più ai rilievi dei legni concertanti con il canto dei solisti. Notevolissima, in compenso, la resa degli archi e degli ottoni tutti.
Alla base dell’intero spettacolo, oggi più che in passato, salta dunque fuori un chiaro bipolarismo fra le tinte fauves del Verismo e un più raffinato straniamento novecentesco rimbalzando in concreto dalle intenzioni del piano registico sui pregi degli esiti in musica, finanche toccando le prove delle singole voci protagoniste. Da un lato, primeggiava infatti il Turiddu del tenore Marcelo Álvarez, timbro pieno e bellissimo, costante nella sua linea di canto generosa e sincera, esatto nell’appoggio dei fiati quanto nella tornitura degli accenti secondo lo stile a segno, senza perdere né arco né frecce, dall’esordio al toccante “Addio alla madre”. Dall’altro, confermandosi interprete brava e potente, Violeta Urmana disegnava una Santuzza di grande temperamento vocale. In verità, fin troppo nobile e talvolta algida, se non crescente stringendo all’acuto e poco badando al peso della dizione, ma in ogni caso gestendo al meglio un registro da sempre molto apprezzato nei ruoli mezzosopranili quanto parimenti lodato nelle sue metamorfosi sopranili di forza. Il che in effetti risponderebbe d’altronde alla visione sdoppiata di Delbono che, chiedendo ai cantanti solo voce e fisicità, pretende di portare lui verso il pubblico l’intero fardello delle emozioni di cui è gravida l’opera. Pregevolissima infine anche la prova dell’ottimo baritono George Gagnidze, Alfio impeccabile per intonazione, volume e arroganza scenica accanto alle non meno intense, e difatti parimenti applaudite, Elena Zilio e Leyla Martinucci nei rispettivi ruoli di una più moderna Mamma Lucia e di una Lola, ci piace pensare in arguto aggancio, dal carisma di una Carmen.
San Carlo Opera Festival 2019
CAVALLERIA RUSTICANA
Opera in un unico atto su libretto di Giovanni Targioni-Tozzetti e Guido Menasci
tratto dalla novella omonima di Giovanni Verga
Musica di Pietro Mascagni
Santuzza Violeta Urmana
Turiddu Marcelo Álvarez
Mamma Lucia Elena Zilio
Alfio George Gagnidze
Lola Leyla Martinucci
Orchestra e Coro del Teatro di San Carlo
Direttore Juraj Valčuha
Maestro del coro Gea Garatti Ansini
Regia Pippo Delbono
Scene Sergio Tramonti
Costumi Giusi Giustino
Luci Alessandro Carletti
Produzione del Teatro di San Carlo
Premio Abbiati 2012 per le scene di Sergio Tramonti
Napoli, 6 luglio 2019