Accolto in tripudio dai fan deliranti, Plácido Domingo ha celebrato domenica sera al Teatro alla Scala i suoi cinquant’anni dal debutto milanese, nel 1969, con Ernani al fianco di Raina Kabaivanska e sotto la direzione di Antonino Votto. Passato, come è noto, negli ultimi anni alla corda baritonale (soprattutto in ruoli verdiani) Domingo si è presentato al suo pubblico adorante interpretando alcune pagine del Macbeth, del Don Carlo e del Trovatore. Coadiuvato, in questo excursus tutto verdiano, dal soprano Saioa Hernández, dal tenore Jorge De León e dal basso Ferruccio Furlanetto. Evelino Pidò dirigeva il coro e l’orchestra dell’Accademia Teatro alla Scala.
Le imbarazzanti vicissitudini che hanno recentemente travagliato la vita di Domingo, vittima in tempi recenti del forse eccessivo puritanesimo che connota la cultura anglosassone, non hanno di certo intaccato la sua fama. Una riflessione approfondita andrebbe fatta sulla distinzione tra l’artista e l’uomo e sulla valutazione etica conseguente. Né è di poco rilievo il fatto che scandali che coinvolgono uomini in primo piano si basino su fatti, alcuni ancora non del tutto accertati, accaduti decenni fa e solo ora denunciati. Comunque sia, un boato lo ha accolto al suo ingresso in palcoscenico: dopo una fin troppo barricadiera esecuzione della sinfonia del Nabucco, Domingo ha attaccato l’aria finale di Macbeth “Pietà, rispetto, amore” con il ben noto, sensuale, timbro che a fatica sembra piegarsi alle nuances espressive del meditabondo baritonale protagonista. Accorciato nei fiati, ma pur sempre abile fraseggiatore, impressiona la freschezza della sua voce che, a settant’otto anni compiuti, può ancora elargire alcune emozioni.
Dopo l’esecuzione dell’aria di Macduff “Ah, la paterna mano” interpretata con dizione confusa e scarso patetismo da Jorge De León, fa il suo ingresso Saioa Hernández per cantare con Domingo il duetto dal primo atto del Macbeth. Al suo fianco Plácido sembra attingere a nuova forza e perentorietà. L’esecuzione del duetto è ben risolta anche sotto l’aspetto interpretativo. È sorprendente come Domingo non riesca a non recitare anche durante un concerto. Il personaggio shakespeariano sembra coinvolgerlo in modo perentorio, sensazione confermata anche dall’esecuzione della scena del banchetto, con un brindisi ben accentato dalla Hernández e con una esecuzione corale e orchestrale di notevole impatto.
La seconda parte si è aperta con il “Tu che le vanità” del Don Carlo cantato dalla Hernández con nettezza di attacchi, registro grave timbrato e qualche carenza di malinconia, soprattutto nell’invocazione alla Francia, paradiso perduto. Il duetto fra Posa e Filippo II che è seguito ha evidenziato i gravi sonori di Furlanetto, ma anche un registro acuto un poco instabile e alcuni vuoti di memoria di Domingo. Dopo l’esecuzione della sinfonia dai Vespri siciliani e l’aria “O tu Palermo” cantata da Furlanetto, è stato il turno del duetto fra Leonora e il Conte di Luna del Trovatore, staccato con un tempo fin troppo slentato da Pidò. Per il bis conclusivo si è tornati al Macbeth con l’interpretazione del finale dell’opera.
Standing ovation a fine concerto e, quale ultimo regalo, una pagina di zarzuela appena accennata da un Domingo ormai esausto.