Il 1920 è, per la storia della musica, un anno particolare. In primis, suggella un ventennio davvero prolifico che ha visto la nascita di svariati capolavori del panorama operistico del XX secolo, fra loro spesso contrastanti: a titolo esemplificativo, composizioni quali Tosca e Madama Butterfly di Giacomo Puccini; Pelléas et Mélisande di Claude Debussy; la celeberrima operetta di Franz Lehár Die lustige Witwe; Salome, Elektra, Der Rosenkavalier e Die Frau ohne Schatten di Richard Strauss; Adriana Lecouvreur di Francesco Cilea; Eine florentinische Tragödie di Alexander von Zemlinsky e La vida breve di Manuel de Falla. Sempre nel 1920 vengono alla luce tre pièce altrettanto di rilievo, invero poco rappresentate ai giorni nostri – perlomeno in Italia, due operine satiriche di Leoš Janáček (Viaggio del signor Brouček sulla luna e Viaggio del signor Brouček nel XV secolo) e un’opera onirica e simbolista in tre quadri musicata da un ventitreenne Erich Wolfgang Korngold, Die tote Stadt.
Tratta dal romanzo breve del 1892 Bruges-la-morte dello scrittore belga Georges Rodenbach, rielaborato successivamente dallo stesso Rodenbach nel dramma Le mirage, La città morta è ambientata in una spettrale, stantia Bruges, la “città della morte” ben appunto, pervasa da un cattolicesimo castratore e da un’atmosfera asfissiante, cupa e morbosa, dove è impossibile esistere poiché non c’è speranza di vita o di resurrezione. Su libretto di Paul Schott (pseudonimo adottato dal padre del compositore, l’affermato critico musicale Julius Korngold), l’opera segue una trama abbastanza bizzarra e decadente, tra visioni e realtà, angoscia e risvolti noir con una dose di marcato erotismo, mescolando in sé differenti stili musicali. Sono, difatti, percepibili l’impronta espressionistica caratterizzante le manifestazioni artistiche della Germania dei primi vent’anni del Novecento; la sensibilità della neue Musik; rimandi al linguaggio e ai Leitmotive di Wagner, al sinfonismo di Mahler e di Strauss, al lirismo di Puccini e al simbolismo di Debussy; svagati toni operettistici; brani di carattere diegetico e forme di Sprechgesang. Si respira, poi, una rarefatta, inquietante aura di sogno (un po’ come accadrà, diciotto anni dopo, nella surrealista Juliette ou la Clé des songes di Bohuslav Martinů) ma, soprattutto, un greve clima da Finis Austriae, palese influsso della Vienna della psicanalisi freudiana, della Sezession di Gustav Klimt, delle irrequietezze visive di Egon Schiele e Oskar Kokoschka, del tramonto dell’Impero.
Tra i meriti maggiori del sovrintendente Alexander Pereira c’è, sicuramente, quello di proporre nel cartellone del Teatro alla Scala titoli desueti se non, addirittura, mai rappresentati sul palcoscenico del Piermarini, come in questo caso. Per l’occasione, torna a Milano uno dei registi più sperimentali dell’odierno panorama lirico, il sessantacinquenne Graham Vick, assente da Milano dal 2008, quando venne riproposto il suo noto Macbeth “del cubo” del 1997. Insistendo su di una recitazione viscerale, su di un’intensa caratterizzazione psicologica dei singoli personaggi e su un buon movimento delle masse, Vick confeziona uno spettacolo di forte impatto. Come desumibile anche dalle scene e dai variegati costumi di Stuart Nunn, la vicenda è trasposta dalla fine del XIX secolo al Novecento. Con un’efficace trovata scenica, il regista britannico divide i fatti realmente accaduti e quelli che hanno luogo nella mente del protagonista con l’utilizzo di un leggero sipario bianco goffrato posto sul fondo del palco; la dimora di Paul e il “Tempio di ciò che è stato”, sacrario dedicato al ricordo della moglie Marie, sono posti in un asettico interno abbacinante nel suo bianco nitore, che traspira una raggelante aura di morte, arredato con pochi oggetti scenici (un divanetto in pelle nera, lo stipite in plexiglass di una porta contenente luci al neon, una teca in cristallo che conserva le reliquie della morta, un inginocchiatoio, mazzi di rose scarlatte, un televisore di ultima generazione dove si ammira il video-ritratto di Marie – in realtà l’inquadratura delle sue labbra e della sua lingua). Il sogno del protagonista è, invece, un incubo agghiacciante dove, con prepotenza, irrompono tristi vicende del cosiddetto “Secolo breve”, per dirla alla Hobsbawm. In particolare, nel quadro secondo, lampante è il riferimento alla corrotta Repubblica di Weimar: come in un grottesco, triste cabaret della Germania anni Trenta, vediamo scorrere davanti ai nostri occhi soldati e gerarchi nazisti, prostitute, teatranti e travestiti, in un profluvio di orge, amplessi, lascivia ed eccessi di ogni natura (e la memoria non può che correre a illustri precedenti cinematografici, in special modo La caduta degli dei di Luchino Visconti e Il portiere di notte di Liliana Cavani). Ancora più angosciante è la visione del terzo quadro, la processione del Santo Sangue, pervasa da una religiosità opulenta dai risvolti macabri, dominata da un gigantesco teschio coronato con una rutilante raggiera d’oro e circondato da enormi rose rosso sangue: i chierichetti salmodianti vengono rimpiazzati, via via, da esponenti della Gioventù hitleriana, mentre militari nazionalsocialisti picchiano gli astanti e deportano nei campi di sterminio i prigionieri, abbigliati con le ahinoi note divise a righe (probabile allusione al vissuto di Korngold che, in quanto di origini ebree, in concomitanza dell’Anschluss abbandonò l’Austria per rifugiarsi in America). Ad arricchire uno spettacolo già di suo icastico, concorrono le atmosferiche luci di Giuseppe Di Iorio, le sfrenate coreografie di Ron Howell e le belle videoproiezioni, mai invasive, illustranti di volta in volta i riflessi dei canali della città belga, campane, sacri cuori, ceri e candele.
Alla guida di un’Orchestra del Teatro alla Scala in gran spolvero, Alan Gilbert dà vita a una lettura a tinte forti, turgida nel suono e tagliente. Servendosi di una gestualità scattante e grazie a una tecnica ferrea, predispone un tappeto musicale lussureggiante, un vero caleidoscopio di sonorità, preziosismi, profili melodici e contrasti che ben inquadra l’eclettismo e l’estrema varietà della partitura. Nitide e sbalzate con incisività risultano, poi, le dinamiche della partitura, in una sapiente, coesa alternanza tra pennellate di soffusi lirismi, intrise di melanconia larmoyant e seducente rêverie, giustapposte a sferzanti guizzi di suono muscolare, di consistenza magmatica.
Nella micidiale parte di Paul troviamo Klaus Florian Vogt. Voce dal metallo di colore argenteo, emessa con garbo, in grado di piegarsi in soavi mezzevoci a volte sfocianti in falsetti, svettante e solida nelle note alte (sebbene non sia sempre a fuoco l’intonazione degli estremi acuti, risultati periclitanti e al limite), il tenore tedesco fraseggia con gusto ed è maggiormente a suo agio nelle parti intimistiche e languorose. L’interprete è poi ineccepibile, restituendo con intelligenza l’immagine di un antieroe introverso, fragile e nevrotico, sempre sul filo del rasoio tra fantasia e realtà, dilaniato fra ossessiva devozione alla moglie defunta, incontrollabili istinti sessuali e fervente religiosità.
Debuttante nel teatro meneghino e trionfatrice della serata è Asmik Grigorian, impostasi all’attenzione internazionale con le sue magnetiche interpretazioni al Salzburger Festspiele di Marie (Wozzeck) nel 2017 e della straussiana Salome nel 2018. Il trentottenne soprano lituano, in possesso di una vocalità ricca di armonici che ha il suo punto di forza in un registro acuto torrenziale e tagliente, a tratti graffiante nella sua penetranza, veste con disinvoltura (o forse bisognerebbe dire sveste, dal momento che è spesso in scena soltanto in lingerie e, nel finale primo, danza a seno nudo coperto solo da copricapezzoli glitterati) i panni di Marietta, ballerina e volitiva femme fatale. Vero e proprio animale da palcoscenico, presenza altamente carismatica, grazie anche a un fisico sexy e statuario la Grigorian recita con pregnanza e cocente umanità, prestando attenzione alla mimica facciale e rendendo l’immagine di una donna estremamente ferina, che gronda fascino ed erotismo. Molta era l’attesa per il celebre Lautenlied di Marietta “Glück, das mir verblieb”, cantato assieme a Vogt con un tocco delicato, di consistenza madreperlacea.
Strumento vocale brunito, emesso con morbidezza, nella doppia parte di Frank e di Fritz, il baritono Markus Werba spicca per la politezza nel porgere la parola e per l’espressività del fraseggio. Indiscutibilmente di livello il Lied di Pierrot “Mein Sehnen, mein Wähnen”, venato di malinconia, reso da Werba con raffinatezza e introspezione, declamato quasi a fior di labbra.
Omogenea vocalmente e scenicamente credibile la Brigitte del mezzosoprano Cristina Damian; squillante il tenore Sascha Emanuel Kramer (conte Albert/Gaston); centrato e spigliato il Victorin del tenore Sergei Ababkin, vestito da donna; volutamente disinibite e vocalmente svettanti le due danzatrici Juliette (Marika Spadafino) e Lucienne (Daria Cherniy); corretto Hwan An (una voce nel quintetto).
Efficaci e ben gestiti i brevi interventi del Coro del Teatro alla Scala e del Coro di voci bianche dell’Accademia Teatro alla Scala, guidati da Bruno Casoni.
Al termine successo al calor bianco, con oltre dieci minuti di festanti applausi e ovazioni per tutti gli artisti, con punte di maggior entusiasmo per Asmik Grigorian, Alan Gilbert e il team registico.
Teatro alla Scala – Stagione d’opera e balletto 2018/19
DIE TOTE STADT
Opera in tre quadri
Libretto di Paul Schott
Musica di Erich Wolfgang Korngold
Paul Klaus Florian Vogt
Marietta/L’apparizione di Marie Asmik Grigorian
Frank/Fritz Markus Werba
Brigitta Cristina Damian
Il conte Albert/Gaston Sascha Emanuel Kramer
Juliette Marika Spadafino
Lucienne Daria Cherniy
Victorin Sergei Ababkin
Una voce nel quintetto Hwan An
Orchestra e Coro del Teatro alla Scala
Coro di voci bianche dell’Accademia Teatro alla Scala
Direttore Alan Gilbert
Maestro del coro Bruno Casoni
Regia Graham Vick
Scene e costumi Stuart Nunn
Luci Giuseppe Di Iorio
Coreografia Ron Howell
Prima rappresentazione al Teatro alla Scala
Nuova produzione Teatro alla Scala
Milano, 28 maggio 2019