Assente dal 1998, torna dopo ventun anni sulle tavole del Teatro alla Scala un vivido e inquietante spaccato in musica della Russia di fine Seicento: Chovanščina, dramma musicale popolare in cinque atti su musica e libretto di Modest Petrovič Musorgskij. Composto a partire dal 1872 e rimasto incompiuto a causa della morte nel 1881 del suo autore, con ampie lacune soprattutto nel finale, viene inizialmente concepito come il secondo tassello di una trilogia mai portata a termine, composta da Boris Godunov e da un terzo titolo – non realizzato – incentrato sulla rivolta di Pugacëv del 1773/1774. Storia alquanto complessa, dove si mischiano fatti politici e vicende private, buoni e cattivi, nobili e popolani, scene di massa e altre maggiormente intimistiche, narra dell’ascesa al trono di Pietro il Grande e dell’opposizione alle riforme liturgiche del patriarca moscovita Nikon da parte dei raskol’niki, i “Vecchi Credenti” o “monaci neri”, appoggiati dagli strel’cy, i soldati di una guarnigione speciale: dissenso duramente represso dalle forze zariste, che si concluderà con un rogo sacrificale collettivo degli ortodossi conservatori.
Come già nel 1998, sul podio torna un decano della musica russa, lo “Zar” del Marinskij Valery Gergiev che, per l’occasione, adotta la revisione e orchestrazione di Dmitrij Šostakovič dalla stesura originale, optando per alcuni tagli alla partitura. Con gesto fluido e sobrio, a tratti scarnificato, il maestro ottiene, da un’ineccepibile Orchestra del Teatro alla Scala, un suono compatto e corrusco, di colore livido, magmatico nel suo dipanarsi nel corso dei cinque atti, sostenuto ma mai enfatico, anzi molto introspettivo e dolente. Grazie a una tecnica ferrea, Gergiev propende per una lettura estremamente drammatica, interiorizzata, intrisa di sofferenza, scavata nella pietra, alternando e dosando con intelligenza tempi serrati e sonorità infuocate a dinamiche di più ampio respiro, vere e proprie oasi liriche impreziosite da sfumature trasparenti e nostalgiche.
Un plauso particolare va al Coro del Teatro alla Scala e al Coro di voci bianche dell’Accademia Teatro alla Scala, guidati con energia ed estrema precisione da Bruno Casoni: in forma smagliante, compatti nella resa e pressoché perfetti nella dizione, sbalzano con potenza e intensità i numerosi interventi che costellano l’opera.
Di livello il cast scritturato, costituito quasi per intero da cantanti madrelingua. Ekaterina Semenchuk è la raskol’nica Marfa, l’indovina: in possesso di una voce mezzosopranile non debordante, timbricamente luminosa nel registro medio-alto e brunita in quello grave, si distingue per un’interpretazione accorata e incisiva, di rara pregnanza nel fraseggio, in particolare nell’aria del terzo atto, rendendo appieno l’immagine della donna gelosa tradita dall’amato ma ancora perdutamente innamorata di lui.
Aitante il principe Ivan Chovanskij del basso Mikhail Petrenko: vocalità pastosa e morbida nell’emissione, di colore chiaro, emerge per una recitazione proterva e per una caratterizzazione del personaggio sfrontata e arrogante. Il tenore Sergey Skorokhodov è un principe Andrej Chovanskij squillante, scenicamente credibile e irruente, dallo strumento omogeneo e ben proiettato.
Ieratico il basso Stanislav Trofimov nei panni del monaco Dosifej, il capo dei “Vecchi Credenti”, dalla voce granitica e profonda, voluminosa e di timbro scuro, emessa con morbidezza.
Vocalmente duttile e ben espanso nell’ampia sala del Piermarini il tenore Evgeny Akimov (Principe Vasilij Golicyn), distintosi anche per una recitazione versatile. Sonoro e omogeneo il boiaro Šaklovityj del baritono Alexey Markov. Brillante lo scrivano del tenore Maxim Paster. Tonante e scenicamente agguerrita la vecchia raskol’nica Susanna del soprano Irina Vashchenko. Nei panni della fanciulla luterana Emma troviamo Evgenia Muraveva: come già nel 2017, quando sostituì Nina Stemme al Salzburger Festspiele come protagonista in Ledi Makbet Mcenskovo uezda di Šostakovič, il soprano si fa notare per uno strumento fresco, torrenziale negli acuti. Completano la locandina alcuni validi solisti dell’Accademia Teatro alla Scala: il musicale Sergei Ababkin (Kuz’ka/Strešnev); il corposo pastore luterano del basso Maharram Huseynov; lo svettante Chuan Wang (Uomo di fiducia del principe Golicyn); i solidi Lasha Sesitashvili (Varsonof’ev), Eugenio Di Lieto (Primo strelec) e Giorgi Lomiseli (Secondo strelec).
Già ben noto al pubblico scaligero, torna a Milano Mario Martone. La sua è una Chovanščina di forte impatto, visionaria e spirituale, ambientata in una realtà postatomica, in un futuro grigio dominato dalla violenza e dalla distruzione, antiutopico nella sua esibita crudezza. Tra le curate scene di Margherita Palli, improntate a colori algidi, avvolte dalla nebbia e popolate da cemento ed edifici in rovina, il regista muove il coro con maestria, mentre più tradizionali risultano gli spostamenti dei singoli cantanti. In questa lettura distopica, numerosi e sferzanti sono i rimandi alla nostra attualità: per esempio, le schiave persiane sono piacenti escort in autoreggenti e tacchi a spillo che, dopo l’assassinio del principe Chovanskij, ne fotografano il cadavere col cellulare per pubblicarlo sui social network; nel quarto atto, gli strel’cy condannati a morte vengono sgozzati da uomini incappucciati e filmati da telecamere (e la memoria non può che correre alle macabre esecuzioni dell’Isis). Di taglio contemporaneo e con molti elementi in pelle i costumi di Ursula Patzak; atmosferiche le luci di Pasquale Mari; di gusto burlesque la coreografia di Daniela Schiavone; efficaci e mai disturbanti le belle videoproiezioni di Italvideo Service, con una menzione speciale per il riuscito, apocalittico finale, dove una luna rosa che campeggia in un freddo cielo azzurro si fa man mano più grande avvicinandosi al bosco dove si sono rifugiati i “Vecchi Credenti” e trasformandosi in un’enorme palla infuocata che incendia la radura e tutto il mondo, in una sorta di catastrofe climatica e ambientale, rogo sacrificale e purificatore che stermina l’umanità.
Al termine, festante accoglienza da parte del folto pubblico presente in sala, con lanci di fiori e coriandoli dal loggione e sentite ovazioni per Valery Gergiev, Bruno Casoni e il suo Coro, Ekaterina Semenchuk e, in misura minore, Mikhail Petrenko e Stanislav Trofimov.
Teatro alla Scala – Stagione d’opera e balletto 2018/19
CHOVANŠČINA
Dramma musicale popolare in cinque atti
Libretto e musica di Modest Petrovič Musorgskij
Principe Ivan Chovanskij Mikhail Petrenko
Principe Andrej Chovanskij Sergey Skorokhodov
Principe Vasilij Golicyn Evgeny Akimov
Šaklovityj Alexey Markov
Dosifej Stanislav Trofimov
Marfa Ekaterina Semenchuk
Susanna Irina Vashchenko
Scrivano Maxim Paster
Emma Evgenia Muraveva
Pastore luterano Maharram Huseynov
Varsonof’ev Lasha Sesitashvili
Kuz’ka/Strešnev Sergej Ababkin
Primo strelec Eugenio Di Lieto
Secondo strelec Giorgi Lomiseli
Uomo di fiducia del principe Golicyn Chuan Wang
Orchestra e Coro del Teatro alla Scala
Coro di voci bianche dell’Accademia Teatro alla Scala
Direttore Valery Gergiev
Maestro del coro Bruno Casoni
Regia Mario Martone
Scene Margherita Palli
Costumi Ursula Patzak
Luci Pasquale Mari
Coreografia Daniela Schiavone
Video Italvideo Service
Nuova produzione Teatro alla Scala
Milano, 3 marzo 2019