Assiomatica, ironica e febbrile, addirittura vaticinante. Ma terribilmente vera, attuale e potente nel restituire in scena e in sessantacinque, concentratissimi minuti fra mimesi e disincanto, il progresso-regresso di una gabbia urbana dal battito apocalittico e dallo scorrere metronomico inesorabile. Oltre il tempo ma che tanto, forse troppo, ci appartiene nella coincidenza di casi dalla geometria variabile entro cui, tra luci fondenti, scritte seriali alla Matrix, schegge di guerra, storie di fabbrica o lunghe cordate di migranti più caleidoscopici sfondi virtuali, si intersecano e confondono (ma mai in concreto s’incontrano) i destini di quattro antitetiche categorie umane – lo Stupido, l’Intelligente, il Bandito e lo Sprovveduto – accanto a una folla smarrita, alienata e alienante, senza volto né più senso fra le tracce di generazioni presenti, future o passate.
Un ingranaggio ferreo, all’interno del quale si uniscono e si riconoscono piuttosto, saltati a piè pari gli stereotipi di trama e personaggi, le ragioni e la forza teatrale delle stesse funzioni drammaturgico-musicali abilmente giocate in contrappunto e a rimbalzo fra i linguaggi di una formula astratta ma sempre assai lucida quanto a scansione per numeri e armonia rigorosa, ben coesa fra polisemia e interartisticità perché autenticamente contemporanea, colta e totale.
È la quarta, nuovissima “opera quasi intelligente” (come recita il divertito sottotitolo) Le leggi fondamentali della stupidità umana creata in pentagramma dal trentaquattrenne e già pluripremiato compositore romano Vittorio Montalti (a soli ventisei anni Leone d’Argento per la Creatività alla Biennale di Venezia e, nel 2016, Premio “Una vita nella musica – giovani” dal Teatro La Fenice), ancora una volta in rodato tandem con Giuliano Compagno per il formidabile libretto ispirato a una fonte nobile quale il fortunato saggio omonimo di Carlo M. Cipolla The Basic Laws of Human Stupidity, uscito in inglese nel 1976, quindi tradotto in 13 lingue e pubblicato in italiano nel 1988 con il suo Allegro non troppo per il Mulino. Il tutto con partitura edita dalla storica e prestigiosa Ricordi. Diciamo, pertanto, una prima mondiale giovane quanto eccellente, fortemente voluta dal sovrintendente Cristiano Chiarot per il Maggio Musicale Fiorentino e caldamente applaudita in tre sere sold out al Teatro Goldoni come terzo titolo lirico fra i cinque proposti dal Festival del Maggio LXXXII edizione, con allestimento parimenti folgorante per regia, scene e luci più voce fuori campo di Giancarlo Cauteruccio, i simbolici costumi di Massimo Bevilacqua, le semplici ma assai efficaci impalcature praticabili di Daniele Spisa, le immagini video e il mapping ipnotico di Alessio Bianciardi. Inoltre, in presenza delle più che notevoli voci dei quattro giovani solisti e, in buca, del ContempoArtEnsemble diretto dal sempre molto attento e sensibile Fabio Maestri mentre, dal palco reale, Montalti in persona curava l’elettronica dal vivo. Valore aggiunto, la collaborazione con il Teatro Studio Krypton, l’Accademia di Belle Arti e il Dipartimento di Nuove tecnologie e linguaggi musicali del Conservatorio di Musica “Luigi Cherubini” di Firenze.
“Opera quasi intelligente”, si diceva: o meglio ancora, geniale. E coraggiosa. Innanzitutto per aver portato in scena una partitura teatrale, a pochi passi dai luoghi nei quali fu concepita e rappresentata nell’anno 1600 la prima opera in musica, in assoluto, a noi giunta (l’Euridice di Peri e Caccini, su testo del Rinuccini), secondo una sfida neanche troppo dissimile da quel dotto sperimentare stando ai tracciati di una ricerca innescata, ovviamente con i mezzi e il più aggiornato sguardo del nostro tempo, con cifra stilisticamente originale e tecnica non fasulla entro una serrata, perfetta intesa fra scena, gesto, parola e musica, rispondendo tra l’altro a meraviglia per architettura e concetti all’arguzia delle cinque leggi enunciate dall’economista-filosofo Cipolla sul tema purtroppo sempre più attuale dei pericoli prodotti dall’umana stupidità. Arrivando a concludere, senza ombra di dubbio, che “La persona stupida è il tipo di persona più pericolosa che esista”, con relativa amplificazione nei versi di Compagno che alla voce narrante lascia dettare il messaggio: “Ciò che fomenta la violenza ottusa / dello stupido poi fattosi furbo / (ma pur sempre stupido alla fine….) / è la bruttezza di una porta chiusa, di una cassaforte senza combinazione, comunque inaccessibile […] Quel che non sei, non simularlo mai; / e quel che sei, sempre dissimularlo devi”.
Cinque le leggi e quattro le categorie umane nel saggio; cinque le voci (un tenore per lo Stupido, un soprano per l’Intelligente, un baritono per lo Sprovveduto e un contralto per il Bandito, più la voce off) trattate per lo più nelle rispettive comfort zone, ma in tutte le soluzioni possibili, dal parlato intonato al canto spiegato, dal sillabato al balbettato o al declamato, dal soffiato al sospirato, dall’urlato a un sublime “a bocca chiusa”, con i debiti riflessi nell’elettronica. Cinque inoltre i quadri e altrettante le articolazioni interne in proporzione aurea ispirata al Fibonacci, con quattro numeri canori a reciproco contrasto compresi fra l’assolo e l’assieme a due, tre e a quattro voci, più un quinto per il siparietto strumentale-coreico e un sesto segmento in cui la voce fuori campo recita le leggi che scorrono perpendicolari e luminose lungo la struttura metallica tralicciata, con conseguente rigurgito nelle pieghe del pensiero e dell’inconscio librettistico. Tredici, invece, gli esecutori in buca, amplificati e divisi tra fiati (flauto più ottavino e flauto a coulisse, oboe, clarinetto e clarinetto basso, fagotto, corno e trombone), quintetto d’archi (due violini, viola, un violoncello e un contrabbasso), tastiera midi e toy piano, elettronica più un intero arsenale di percussioni (vibrafono, kick-drum, hi-hat, spring-drum, crasher, brake-drums, campanacci, lastra, lastra del tuono con rute grosse, tubo metallico, set di metalli e di padelle o teglie da cucina, woodblocks, guiro, due bottiglie di vetro e una scatolina di cartone riempita con piolini di legno). E poi la parte elettronica, intesa come scia di espansione a eco o rifrazione delle possibilità sia timbriche che espressive delle voci, a complemento del respiro strumentale, in funzione estrema e rumoristica, così come per quel fondale electro noise, puntuale e presente come un graffio nella scrittura di Montalti, qui non a caso in coincidenza con il peso drammatico conferito alla lettura delle legge sull’alone sonoro del numero che la precede.
Niente trama, né personaggi, dunque nel teatro musicale forgiato stavolta dal binomio Montalti-Compagno, speciale sodalizio che ha sin qui messo a segno risultati importanti a partire dall’opera prima L’arte e la maniera di affrontare il proprio capo per chiedergli un aumento (nel 2013, da Georges Perec), per poi proseguire con l’atto unico Ehi Gio’. Vivere e sentire del grande Rossini (nel 2016 al Teatro Lirico Sperimentale di Spoleto e lo scorso ottobre in versione inedita per l’apertura del Maggio Musicale Fiorentino) e Un romano a Marte (dalla commedia di Ennio Flaiano) che vedremo dal prossimo 22 novembre in prima rappresentazione assoluta all’Opera di Roma quale partitura vincitrice quattro anni fa del Premio di composizione del Teatro capitolino. Nessuna narrazione perché, grazie anche al raro legame con l’intelligenza gestuale e visiva garantita da Cauteruccio, le loro “Leggi” prendono forma e fibra drammatica attraverso i pentagrammi a fuochi multipli e incrociati di tutti gli idiomi in campo. Testando, di fatto, una drammaturgia sonora di concetti, numeri e linguaggi.
Alla base della felicità e forza degli esiti? L’alto pregio di ogni tassello in convergenza, a partire dall’acume illuminante della fonte e dalle tecniche di rielaborazione-invenzione poetica messe a segno da Giuliano Compagno: l’ibrido linguistico anglo-italiano in riferimento alle due edizioni del saggio (con climax in quel vice-versa cantato come vizio all’inglese e poi in italiano come scambio di ruolo), gli effetti paronomastici, sinestesici, a specchio e meccanico-iterativi, le tante anafore in metamorfosi, i procedimenti per sottrazione con ricaduta nichilista (Tu non sei stato mai felice. / Tu non sei stato / tu non sei) o aumentazione, il bellissimo cammeo con i versi di Yeats (Cammina lieve, perché cammini sui miei sogni) recitati dallo Sprovveduto sulla nenia a bocca chiusa sciolta dall’Intelligente, e fino all’hashtag di chiusura, semplicemente scritto, “disattiviamoimeccanismididifesa” lungo il suono distorto all’acuto di una sirena di fabbrica lontana.
In parallelo, la musica di Vittorio Montalti, nobile e bella, saldamente poggiata su triadi, contrappunti e poliritmie, ora asciutta, ora estrema, onomatopeica, dolcemente ieratica, scolpita in apertura a quattro voci con una figurazione ostinata a valori larghi e chiusa in stretta da una scaletta veloce, che tornerà variata più volte. Quindi le tante combinazioni, intervallari, timbriche, metriche, tra raffiche di suoni metallici e ribattuti ossessivi, vapori sonori e silenzi, tic fonico-ritmici, dissimulazioni tonali, segnali acustici da video games. Una scrittura particolarmente preziosa nel trattare le voci, caratterizzando ogni numero come un piccolo quadro a sé, secondo il diagramma di relazioni dettate dal testo: s’intravedono echi stravinskiani, aforismi minimalisti e le veloci invenzioni canore di Adès, le combinazioni trasversali e virtuose di Aperghis ma anche tinte madrigalistiche e qualche accenno al comico settecentesco nella vocalità tenorile. Ad ogni buon conto si tratta di suggestioni più nostre che sue, perché la cifra è inequivocabilmente inedita e proiettata verso forme di diversa, post-moderna eufonia.
Il contesto registico-scenico sigilla il resto: un ingranaggio meccanico, a tratti marionettistico, a tratti orwelliano, che stordisce, proietta, disperde e annienta macinando luci e colori, passi di tango e di twist, gesti vuoti o violenti e movimenti alla cieca, nei valori come nei ruoli, di una società distopica, come persa in cortocircuito.
Tutti bravissimi i quattro interpreti in scena: il tenore Manuel Amati, poco più che ventenne, dà forma e voce allo Stupido presentandosi come un Arlecchino in chiave pop, con camicia gialla, cravatta e un completo le cui losanghe non sono che la destrutturazione del vecchio logo Rai delle prove tecniche di trasmissione. Ovviamente, cellulare sempre in mano e il pallino dei selfie, gestualità meccanica e, soprattutto, una linea di canto ben ferma, di tinta chiara e incline al belcanto, proiettata verso l’acuto d’impronta comica.
Il soprano Ljuba Bergamelli, al suo opposto, rappresenta l’Intelligenza, ovviamente di giallo vestita. Molto appropriata sul fronte attoriale, sfodera un’emissione sicura, smaltata e intensa, agilmente declinata tra luminose puntature all’acuto e affondi drammatici, dilatazioni al ralenti unite ai frammenti della sua stessa eco, canto a bocca chiusa e le molteplici combinazioni in alternanza o adesione melodico-ritmica con le altre voci. Il baritono Oliver Pürckhauer è lo Sprovveduto, su sedia a rotelle e non vedente velato, come a parafrasare il detto che non c’è peggior cieco di chi non vuol vedere. Scenicamente prestante, vocalmente intenso nel suo solo per addizione in apertura del quadro terzo, così come nella recitazione ricca di sfumature alla quinta scena del quadro quinto. Non meno valorosa Victoria Massey, voce di contralto per un Bandito prepotente e imponente, con mitra o revolver, ombrellino ottocentesco o specchio. Ossia con tutte le contraddizioni del caso. Il suo canto è scuro e violento ma, anche, morbido e profondo, come in quella sorta di lamento rituale, bellissimo, condiviso con il tenore alla scena quinta del quadro terzo.
Infine il ContempoArtEnsemble, organico sollecito e molto puntuale (di cui è d’obbligo citare almeno l’eccezionale percussionista Marco Farruggia) nel rispetto delle indicazioni regolate ad arte sul podio da Fabio Maestri, interprete da sempre particolarmente attento ai repertori più moderni e qui in prima linea nel tenere ben strette le redini del gioco in equilibrio delicatissimo su piani molteplici, fra accelerazioni metriche e affondi dinamici, vertigini ritmiche, mosaici d’insieme, relazioni e contrasti, dissimulazioni e rimbalzi. Restituendone al meglio, e ad ogni pagina, i percorsi formali, gli orizzonti espressivi, il respiro teatrale.
Teatro Goldoni – 82° Maggio Musicale Fiorentino
LE LEGGI FONDAMENTALI DELLA STUPIDITÀ UMANA
Libretto Giuliano Compagno
Musica di Vittorio Montalti
Ispirato al saggio di Carlo M. Cipolla
Le leggi fondamentali della stupidità umana
Soprano Ljuba Bergamelli
Mezzosoprano Victoria Massey
Tenore Manuel Amati
Basso Oliver Pürckhauer
ContempoArtEnsemble
Direttore Fabio Maestri
Regia Giancarlo Cauteruccio
Regia del suono Conservatorio di Musica L. Cherubini
Dipartimento di Nuove tecnologie e linguaggi musicali
Scuola di Musica Elettronica – MARTLab
Alfonso Belfiore, Marco Ligabue, Roberto Neri
Firenze, 31 maggio 2019